L'artigianato pop non è un mestiere facile. Servono una sensibilità e un senso della misura fuori dal comune per non scivolare nella scontatezza. Quante sono le imitazioni beatlesiane che diventano irrimediabilmente stucchevoli già al secondo ascolto? Giusto il tempo per finire in qualche spot di telefonia e poi dritte nel dimenticatoio.
Le canzoni di Andrew Bird, invece, fanno parte di quelle magie che, nonostante la loro apparente immediatezza, conservano la capacità di sorprendere con nuovi dettagli a ogni ascolto.
Certo, ci sono voluti un po' di tentativi, al violinista e songwriter di Chicago, per trovare la formula magica di questo equilibrio. Le atmosfere swing e jazz degli esordi con i Bowl Of Fire hanno lasciato spazio a un intrigante pop cameristico, che unisce la dimensione cantautorale di Rufus Wainwright ed Ed Harcourt allo zucchero filato di Sondre Lerche: un'evoluzione a cui deve avere sicuramente contribuito la collaborazione, nel corso degli anni, con gente come Will Oldham, Howe Gelb e Ani Di Franco, che l'ha voluto con sé anche nel suo ultimo tour.
"Andrew Bird & The Mysterious Production Of Eggs" porta così a compimento la svolta iniziata nel 2003 con "Weather Systems", di cui il nuovo album è diretto figlio. Un paio di episodi, addirittura, non sono altro che riletture di brani già presenti sul disco precedente, che acquistano ora una rinnovata ricchezza di arrangiamenti: il singolo "Sovay" si affida alla sua danza di piano per introdurre l'ascoltatore nel mondo di Andrew Bird, mentre la scorribanda exotica di "Skin Is, My" riprende i ritmi latini della strumentale "Skin", trasportandoli in una dimensione di stratificata raffinatezza. E anche il colorato artwork fumettistico del disco è frutto ancora una volta della matita di Jay Ryan, immaginifico autore di poster rock.
Le partiture d'archi di Andrew Bird fanno un uso sapiente di svenevolezze orchestrali alla Brian Wilson, che accompagnano le corde carezzevoli della chitarra e i ricami di glockenspiel e piano elettrico, con qualche occasionale inserto di beat sgranati.
Andrew Bird si diverte a suonare di tutto, compreso quell'inconfondibile strumento naturale rappresentato dal suo vibrante fischiettio, che si può ascoltare all'inizio di "MX Missiles" e negli svagati passaggi bacharachiani di "Masterfade". Accanto a lui, le uniche presenze fisse sono quella della batteria di Kevin O'Donnell e delle armonie vocali di Nora O' Connor, entrambi reduci dei Bowl Of Fire. Ma la voce che domina la scena è quella di Bird, con il suo tono caldo e in apparenza dimesso, ma capace di impennate a metà strada tra il Thom Yorke meno lamentoso e il Jeff Buckley meno gigionesco.
I dodici movimenti di "Andrew Bird & The Mysterious Production Of Eggs", cui si aggiungono due brevi strumentali incentrati sul violino di Bird, alternano l'intimismo di "Measuring Cups", "Masterfade" e "The Naming Of Things" a composizioni più complesse e dalle improvvise divagazioni melodiche, come "A Nervous Tic Motion Of The Head To The Left", "MX Missiles" e "Tables And Chairs". Viene da pensare al classicismo dei Lambchop, ma con una briosa leggerezza che riesce a essere immune da certi toni magniloquenti del loro ultimo, ambizioso doppio album. Non è un caso, allora, che il nome di Mark Nevers, chitarrista del collettivo di Nashville, compaia tra i produttori del disco, come già era accaduto in "Weather Systems".
E poi ci sono quei versi pungenti e ricercati, che sembrano scritti dal Paul Simon dei tempi di "Graceland" o addirittura del debutto da solista. Andrew Bird osserva con il suo sguardo ironico la deriva di un mondo schiavo delle leggi del mercato, in cui tutto può essere ridotto a una misura: "Get out your measuring cup and we'll play a new game / Come to the front of the class and we'll measure your brain / We'll give you a complex and we'll give it a name". Un mondo fatto di Don Chisciotte che suonano la "Cavalcata delle Valchirie" sui loro B-17, come in "Sovay", un mondo dal quale l'unica via d'uscita sembra essere quella di un "Opposite Day" in cui ogni molecola decida improvvisamente di cambiare la propria forma, facendo venire meno le leggi stesse della fisica. O forse, come suggerisce la conclusiva "The Happy Birthday Song", basterebbe che ci fosse ancora qualcuno capace di cantarti "Happy Birthday" come se fosse il tuo ultimo giorno qui sulla terra, perché tutto possa cambiare…
Il fatto è che, nel calderone sempre più caotico delle uscite discografiche di questi anni, un disco intelligente e discreto come quello di Andrew Bird rischia facilmente di perdersi nell'angolo di qualche scaffale: non è abbastanza "alternativo" per attirare ammiccamenti snob e non è abbastanza "commerciale" per sfruttare un appeal di superficie. Una ragione in più per non lasciarlo passare inosservato.
23/03/2011