Non si può raccontare un concerto di Springsteen in tempo reale: va lasciato decantare, continua a crescere a dismisura nei giorni successivi, come un gigantesco blob, fino ad appropriarsi di tutto, un evento totalizzante in grado di fare tabula rasa di ciò che lo circonda, rendendo irrisorie tutte le ansie quotidiane.
Da qui la decisione di lasciar trascorrere qualche giorno prima di mettere mano alla cronaca di uno show che non è stato un semplice concerto, bensì la celebrazione collettiva di un’icona assoluta, una delle immagini musicali più fervide dello scorso secolo e di quello in corso, un evento che certamente sarà ricordato nella storia e che già viene certificato dagli esperti come uno dei migliori della sua carriera.
Giovedì 11 luglio 2013 ho finalmente lavato la colpa di non aver mai assistito a un concerto del Boss: nonostante fosse venuto ripetutamente nella nostra penisola, per un motivo o per l’altro, non ero mai riuscito ad essere presente, anche perché non sono mai stato un fan del cantautore del New Jersey: possedendo soltanto sei o sette dischi e appena un paio di sue biografie, non potrei mai essere accettato nella schiera dei fedelissimi, occorre un pedigree di maggior spessore, i suoi fan sono molto esigenti da questo punto di vista.
Ma come recita un vecchio adagio, “il mondo è composto da due tipi di persone: chi ama Bruce Springsteen e chi non lo ha mai visto dal vivo”. E così mi sono avvicinato all’ora X consapevole dei molteplici luoghi comuni che circondano i suoi show, tutti assolutamente confermati dalla data romana: la carica rabbiosa, la durata infinita, l’assenza di pause, l’immersione del protagonista nel proprio pubblico e la compartecipazione dello stesso allo sviluppo della spettacolo, la perizia tecnica dei musicisti, l’imprevedibilità della scaletta, e così via.
Ogni performance di Springsteen è unica ed irripetibile, e questo è il motivo per il quale il pubblico torna a vederlo sempre: sa che ogni volta assisterà a uno spettacolo completamente diverso. Perché Bruce invita alcuni spettatori delle prime file sul palco, dando vita a siparietti ogni sera differenti. E soprattutto perché Bruce consente al pubblico di scegliere quasi metà della setlist, andando a raccogliere personalmente parte delle decine di cartelli innalzati dai fan, e mostrandoli prima alla platea e poi alla band, pronta sempre ad assecondare le richieste senza indugi, nonostante un repertorio sconfinato, spesso arricchito dalle cover più impreviste. Quindi inutile fare congetture analizzando cervelloticamente le scalette dei concerti dei giorni precedenti: è il fato a regnare sovrano.
La cosa che colpisce di più è la modalità con la quale il Boss si dona completamente al pubblico, come se stesse ogni volta facendo l’ultimo concerto della sua vita. Sin dalla prima canzone, “Spirit In The Night”: la band parte, il Boss da dietro le quinte lancia messaggi da predicatore (“Can You Feel The Spirit?”) e quando arriva sul palco il suo primo pensiero è correre verso le prime file, cercare il contatto fisico, toccare le mani dei fortunati.
E tornerà a farlo più volte nel corso del concerto, sino all’apoteosi di “Born To Run”, quando lascia che la sua gente tocchi le corde della propria inseparabile Telecaster, alla faccia di tutte quelle rockstar piccole e grandi che tendono a ergere un muro fra sé e il pubblico. Qui la compenetrazione fra palco e platea è totale, a tratti pare avvenga una sorta di fusione mistica fra artista e pubblico, una rarità che in pochissimi altri casi al mondo può manifestarsi.
Lo show romano, a detta dei numerosi esperti di Springsteen presenti, sarà ricordato come uno dei suoi più belli di sempre, il migliore fra quelli eseguiti a Roma, e in Italia secondo soltanto a quello storico di Milano del 1985, la sua prima discesa nella nostra penisola. Si interrompe pertanto quella consuetudine che vedeva il capoluogo milanese come luogo deputato a ospitare i suoi show più memorabili: si diceva che il Boss a Milano dà sempre qualcosa in più. Invece stavolta la scaletta premia Roma, e se Milano si è caratterizzata per aver avuto la riproposizione integrale di “Born In The Usa”, non certo il disco preferito dai fan, Roma eccelle per certe perle disseminate lungo la scaletta. Secondo l’idea iniziale (a detta del chitarrista Little Steven, in una dichiarazione rilasciata a fine concerto) la E Street Band era partita per proporre a un certo punto “The Wild, The Innocent And The E Street Shuffle” integralmente, ma poi Bruce ha deciso di cambiare in corsa, seguendo le richieste della platea, e di “The Wild” resteranno comunque quattro proposte da brividi.
A cominciare da “N.Y.C. Serenade”: i biografi mi dicono che questo brano dal 1973 non è stato mai eseguito in Europa e soltanto pochissime volte altrove. Mi pare strano, vista la straordinaria bellezza del pezzo (e del testo), ma mi fido. “N.Y.C. Serenade” è uno dei due momenti più alti dello show: quasi dodici minuti delle nostre vite che resteranno per sempre indimenticabili, nobilitati al quarto minuto dall’apparizione degli archi dell’Orchestra Roma Sinfonietta, gentilmente prestati per l’occasione, con questi giovani orchestrali baciati dalla dea bendata e sentitamente ringraziati uno a uno dal Boss alla fine del brano. L’altro momento topico è costituito dai quindici minuti iper trascinanti di “Kitty’s Back” (anche questa ripresa da “The Wild”), un tripudio di energia aperto da un solo claptoniano che sfocia in una festa simil-jazz di ottoni e piano, con sugli scudi il nipote di Clarence Clemons, quel Jake che già appare perfetto nel vestire i panni dell’ingombrante zio.
Il primo portentoso acuto della serata era già stato lanciato grazie all’accoppiata “Summertime Blues”/“Stand On It”, una prima iniezione di sana energia che fa saltare in aria tutto l’Ippodromo. Il concerto fila via iper-trascinante, puntando su molte canzoni storiche (con sugli scudi “Badlands”, “Roulette”, “Candy’s Room”, “Rosalita” e “Bobby Jean”), ma concedendo spazio anche a qualche estratto da “Wrecking Ball”, la sua produzione più recente, fra le quali merita menzione d’onore almeno l’afflato irish di “Death To My Hometown”. Per tirare il fiato occorre attendere oltre un’ora e mezza (ovverosia quando la stragrande maggioranza di band al mondo non avrebbero già più nulla da dire, mentre qui siamo neanche a metà del guado…) con l'elegante riproposizione di “Brilliant Disguise”, ennesima richiesta arrivata dal pit, la parte transennata immediatamente a ridosso del palco, assegnata ai fan che per primi si fanno trovare davanti ai cancelli: è lì che risiedono gli eletti, in grado di godersi il concerto da pochi metri e sperare di toccare il monumento.
E son loro che colorano parte della performance, interagendo con l’attore principale, il quale (come spesso accade) invita un bambino a cantare “Waitin’ On A Sunny Day”, oppure una ragazza a ballare con lui sulle note di “Dancing In The Dark”. E qui si apre il siparietto col fidanzato di lei, che richiamato sul palco dal Boss, offre alla donzella l’anello di fidanzamento ufficiale. Sembrerebbe tutto preparato a tavolino in accordo con Springsteen, ma le cose non stanno così: chi si ritrova sotto il palco sa che potrebbe essere scelto per salire su, e non sono in pochi a prepararsi vere e proprie scenette da realizzare qualora fossero chiamati a interagire col gran cerimoniere. E’ questa imprevedibile e costante interazione non scritta che rende ogni spettacolo inevitabilmente unico.
Sulla coda di “Dancing In The Dark”, eseguita dopo la micidiale doppietta “Born In The Usa"/ “Born To Run”, Bruce invita anche due ragazze a imbracciare la chitarra acustica, per quello che diventa un crescendo davvero festaiolo, elevato all’ennesima potenza dalle successive travolgenti “Tenth Avenue Freeze-Out” (con il consueto omaggio all’amico Clemons, ma sui tre maxischermi compare anche Danny Federici, altro fedelissimo che purtroppo non c’è più), “Twist And Shout” e “Shout”, che sembra non finire mai, come se la band volesse ogni volta farla ripartire per condurre il concerto fino alle luci dell’alba.
Sono trascorse tre ore e venti dall’inizio del set, ma sia musicisti (alcuni ben oltre i 60 anni) che pubblico continuano a saltare all’impazzata, come se una misteriosa forza inaudita si fosse impossessata dello spazio circostante.
Ma come tutte le cose più belle, anche questo show deve avere una fine, e la E Street band si congeda. Anche Springsteen pare salutare, ma è solo una finta da consumato frontman: è conscio di aver dato vita alla serata perfetta, a un evento memorabile. Lui è stato grande, e il pubblico presente altrettanto, quindi va ringraziato con un ultimo regalo: una versione per sola voce e chitarra di “Thunder Road”, eseguita in un silenzio che dimostra tutto il rispetto che il pubblico nutre nei confronti di questo straordinario performer.
Dicevamo che quello di questa sera non è stato un concerto, è stata la celebrazione di un’icona assoluta, di un personaggio che sin dai primissimi anni 70 seppe mostrare quale sarebbe stato il futuro del rock’n’roll, e che nonostante pazzeschi successi planetari, resta fondamentalmente un uomo del popolo, uno che per andare da Padova a Milano decide di prendere il treno a sue spese, uno che esce dall’albergo e fotografa i fan, uno che si siede a Trinità dei Monti a strimpellare la chitarra e a parlare con la gente comune, uno che nonostante l’età continua a mostrare un fisico invidiabile e non risparmia mai una goccia di sudore, uno che rispetta enormemente il proprio pubblico, lasciandolo tornare a casa soltanto quando lo vede esausto e totalmente soddisfatto. Poche rockstar al mondo sono oggi in grado di mettere in scena uno spettacolo di questo tipo, che non ha bisogno di alcun effetto speciale, perché lo spettacolo è lui. Spendere 75 euro per vederlo è stata una vera rapina, sì, ma che noi abbiamo perpetrato nei suoi confronti.
Spirit In The Night
My Love Will Not Let You Down
Badlands
Death To My Hometown
Roulette
Lucky Town
Summertime Blues
Stand On It
Working On The Highway
Candy’s Room
Not Fade Away (intro)
She’s The One
Brilliant Disguise
Kitty’s Back
Incident On 57th Street
Rosalita (Come Out Tonight)
New York City Serenade
Shackled And Drawn
Darlington County
Bobby Jean
Waitin’ On A Sunny Day
The Rising
Land Of Hope And Dreams
Born In The U.S.A.
Born To Run
Dancing In The Dark
Tenth Avenue Freeze-Out
Twist And Shout
Shout
Thunder Road (solo acoustic)