Per giustificare o meno l’hype attorno a un progetto musicale esordiente, la prova del nove per eccellenza è indubbiamente quella del palco. Il live, infatti, può mentire molto meno rispetto a quanto creato in studio ed è quindi più facile capire chi ha lo spessore per continuare a dare soddisfazioni anche in futuro e chi, invece, è destinato a essere un fuoco di paglia. C’era, pertanto, una certa curiosità legata alla prima apparizione in Italia dei Daughter, tre date delle quali questa al radar Festival era l’ultima. La location è buona, essenziale e raccolta al punto giusto, peccato solo una certa difficoltà nel trovare parcheggio in zona, almeno per chi viene da lontano e non conosce, quindi, la viabilità circostante. Il Radar Festival, alla sua prima edizione, offre una programmazione di ottimo livello contante realtà italiane meritevoli di attenzione e alcuni ospiti stranieri di prestigio e con la maggior parte dei concerti a ingresso gratuito. Insomma, una buona partenza per una manifestazione che ci auguriamo possa durare nel tempo. Tra il pubblico, ci sono diverse persone provenienti da altre regioni, segno che il trio capeggiato da Elena Tonra sta lasciando il segno anche da noi.
Prima della band principale di serata, sale sul palco per una performance solo voce e chitarra acustica il nostrano The Sleeping Tree. Due dischi già all’attivo e un terzo di prossima uscita, il pordenonese Giulio Frausin ha messo in mostra un songwriting di buona fattura e soprattutto con una buona dose di personalità. Non è facile, infatti, trovare un riferimento ben preciso al suo stile compositivo e questo aspetto è molto importante in un progetto folk odierno. A volersi sforzare si potrebbe pensare a Tim Buckley, cercando invece un nome più attuale e soprattutto meno ingombrante, potrebbe andare bene Terje Nordgarden, ma, come si diceva, sono giusto richiami e non si può certo dire che l’artista si rifaccia pedissequamente a loro. L’unico problema è quello probabilmente più diffuso tra chi in Italia cerca di proporre songwriting dal respiro internazionale, ovvero la pronuncia dell’inglese. Sarebbe importante che Frausin lavorasse bene su questo aspetto, perché la credibilità complessiva ne guadagnerebbe enormemente e comunque, già così, le doti compositive sono indubbie, almeno per quanto si è visto qui. Per chi non lo conosce, come i sottoscritti, la voglia di ascoltare i dischi non può non essere venuta.
Non sappiamo bene cosa aspettarci dal trio inglese: le voci li descrivono come molto timidi nell’approccio ai grandi palchi, specialmente Elena Tonra. Questa sera le condizioni sono però differenti, il pubblico è ridotto rispetto alle apparizioni nei festival europei, ma non per questo meno caloroso. Dell’ora di set dei Daugher resta soprattutto un concetto fondamentale. La band non si è limitata a salire sul palco e risuonare i propri brani come l’ha fatto in studio, ma è stato molto evidente che dietro c’è stato un lavoro minuzioso per dare alle canzoni stesse il giusto impatto live senza snaturare la loro natura intimista e introspettiva. Il trio era accompagnato da un musicista aggiunto, che si divideva tra chitarra e tastiera, e i quattro non si sono mai abbandonati a un suono eccessivamente etereo, ma si sono impegnati affinché non mancasse mai la giusta consistenza, trovando ogni volta le giuste variazioni alle partiture per non spezzare il sottile equilibrio di cui sopra.
Non è mai facile intraprendere una strada del genere quando si deve impostare un live, tanto più se si è all’esordio e con la consapevolezza che, nel caso di scelte sbagliate, aspre critiche sarebbero provenute da ogni dove. Invece, le scelte sono risultate tutte giuste, il concerto è stato impostato ottimamente, con l’alternarsi fra le canzoni del recente “If You Leave” e quelle dei precedenti Ep, l’equilibrio non è mai venuto meno e in definitiva i Daughter hanno incontrovertibilmente dimostrato di essere un progetto basato su idee chiare e nel quale i musicisti hanno il pieno possesso del repertorio e sono in grado di trovare le soluzioni adatte a valorizzarlo anche dal vivo.
Poi certo, l’esecuzione strumentale e vocale è stata caratterizzata da qualche spigolosità di troppo, nel senso che il suono, il cantato e l’interazione tra essi possono senz’altro essere rifiniti e cesellati con un maggior grado di definizione. Ma questo è lo scotto inevitabile del noviziato: ovviamente, la sensibilità interpretativa è una dote che si acquisisce solo con l’esperienza e anche così, comunque, il quartetto si è fatto valere, con i propri limiti senz’altro sovrastati dai pregi appena descritti.
È necessario, a questo punto, passare a discutere dell’atteggiamento sul palco, senz’altro l’aspetto più controverso della performance. La band, infatti, si mostra assolutamente serena e rilassata, e fin qui tutto bene, con la Tonra particolarmente gaia che non trattiene le risate tra una canzone e l’altra. Un po’ è l’emozione, un po’ è la voglia di godersi gli applausi scroscianti del pubblico, un po’ è, per stessa ammissione della leader, il mezzo bicchiere di vino bevuto, fatto sta che ogni singola volta in cui la band si sta preparando per il brano da suonare, Elena ride e parla, parla e ride e Igor, il chitarrista, ogni tanto la segue. Ora, il rischio era ovviamente quello di spezzare troppo la tensione emotiva propria del repertorio, infatti tra il pubblico - e anche fra chi vi scrive - i pareri erano discordanti: c’era chi sosteneva che quel modo di fare stesse rovinando l’efficacia complessiva del set e c’era, invece, chi difendeva la leader in nome di un continuum di genuinità tout court, filo conduttore tra il tormento e la sofferenza espresse nelle canzoni e l’allegria mostrata in mezzo a esse.
Come si accennava, anche i due autori del presente report non sono concordi sul punto: Villa, infatti, sostiene la prima ipotesi, mentre secondo Bartolotta un conto è raccontare barzellette sulle capre e su altre amenità come fa Josh T. Pearson, lui sì fuori luogo con questi suoi interventi, un conto è mostrare con estrema autenticità ciò che si provava mentre si stava scrivendo le canzoni gomito a gomito con lo stato d’animo del momento, con un punto in comune che comunque c’è, come appena spiegato. Punti di vista differenti puramente soggettivi che non tolgono nulla alla performance del gruppo inglese.
Il pubblico, comunque, è stato per la maggior parte entusiasta. Quando all’attacco di “Winter” ha iniziato a piovere, nessuno si è spostato dalla propria posizione e per fortuna la pioggia è durata quasi solo per questo brano, una sorta di effetto coreografico naturale. Durante “Youth”, invece, la gente si è lasciata andare a un singalong collettivo, molto tenero e per nulla inadatto alla drammaticità della canzone, con Elena che si è particolarmente emozionata tanto che la voce si è letteralmente bloccata per un paio di versi. Questi sono stati i momenti più alti, assieme a una “Candles” di grande impatto. La band non aveva previsto encore, ma c’era troppa voglia di premiare un pubblico così devoto e allora i tre sono tornati sul palco per chiudere la serata con la cover di “Get Lucky”.
È stata una serata che ha saputo toccare nell’intimo i presenti, nel modo che tutti probabilmente speravano. Vedremo nei prossimi mesi quanto i Daughter sapranno migliorarsi, ma in ogni caso, la prova del nove è stata brillantemente superata, almeno qui.
Still
Amsterdam
Landfill
Smother
Human
Love
Shallows
Winter
Candles
Tomorrow
Youth
Home
Encore
Get Lucky (Daft Punk cover)