23/07/2014

National

Cavea Auditorium Parco della Musica, Roma


Dev’essere piaciuta tanto anche ai National la location della Cavea, l’accogliente spazio aperto con struttura ad anfiteatro posto all’interno dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, se a distanza di un solo anno hanno deciso di ritornarci. Nell’edizione passata di “Luglio Suona Bene” la band di Matt Berninger mise a dura prova il lavoro della security, incapace di contenere la frenesia del pubblico e le esuberanze ad alto contenuto etilico del frontman. Stavolta le regole del gioco sono chiare sin dall’inizio: quando sul maxi-schermo viene inquadrato il gruppo alle prese con l’ingresso in scena, in un attimo l’intero parterre scatta in piedi lanciandosi sotto al palco, noi compresi, che lo scorso anno avevamo colpevolmente scelto di assistere allo show dalla tribuna.
E invece un concerto dei National va vissuto a ridosso del palcoscenico, perché Berninger, ma anche i fratelli Dessner, cercano continuamente il contatto col pubblico. Il cantante in particolare, oltre a compiere la consueta passeggiata fra la folla delirante durante “Mr. November”, non di rado si getta senza timore alcuno fra le prime file, lasciandosi quasi violentare dai fan più scalmanati, un contatto fisico che è la vera chiave di lettura di ogni spettacolo della formazione americana, una chiave inaspettata per chi non li conosce a fondo.

Il quintetto è come al solito arricchito da due musicisti alle prese con fiati, tastiere, cori e, talora, strumenti a corda. Matt annuncia che, in mancanza del gruppo spalla, la band eseguirà una sorta di mini-concerto semiacustico d’apertura al proprio show. Ma chiede anche di non preoccuparsi, perché dopo l’introduzione volutamente soffusa arriverà il concerto “vero”.
Una scelta, questa della sequenza atmosferica di cinque brani per dare il via all’esibizione, motivata anche dall’esigenza di diversificare il set rispetto a quello dell’estate precedente. La scusa per ripescare canzoni meno sfruttate, di quelle che, pur adorate dai fan, inevitabilmente restano un pochino nell’ombra, accanto ai tradizionali cavalli di battaglia della band: “Wasp Nest” e “All Dolled-Up In Straps” sono riprese dall’Ep “Cherry Tree”, “90-Mile Water Wall” da “Sad Songs For Dirty Lovers”, poi arrivano “Fireproof” e “Hard To Find” dall’ultimo “Trouble Will Find Me”, e l’atmosfera inizia a riscaldarsi.

“Don’t Swallow The Cap” rappresenta  il volano che conduce all’evoluzione naturale dello show. I gemelli Dessner e Scott Devendorf si scambiano più volte strumenti e posizioni, mentre Bryan Devendorf sostiene i brani con il suo drumming tutto giocato sui tom, accurato ma mai sopra le righe.
Matt Berninger, ça va sans dire, è il catalizzatore delle attenzioni del pubblico. Appoggiato all’asta del microfono, intona le liriche con quella personale voce baritonale, da crooner noir del nuovo millennio. Una voce che esce meno rispetto ad un anno fa, ma che dispensa le medesime emozioni. Con falcate nervose percorre il palco in lungo e in largo, tenendo sempre a portata di mano l’inseparabile bottiglia (ne cambierà diverse nel corso della serata, delle quali una sarà donata alla folla) di vino bianco immersa nell’oramai celeberrimo cestello del ghiaccio. Senza dimenticare di innaffiare le prime file lanciando in aria qualche bicchiere di plastica pieno.

La scaletta è il solito saliscendi emozionale, che la carica live rende più fragoroso rispetto alle versioni in studio. Dopo il riscaldamento dei primi pezzi, basta l'accoppiata “Mistaken For Stranger”/“Bloodbuzz Ohio” per rendere la serata indimenticabile, seguite da lì a poco dall’altro gioiellino “Afraid For Everyone”. Tanto per non dimenticare che razza di capolavori hanno scritto questi signori.
Ma i momenti catartici arrivano nella parte finale, con una “Graceless” resa con la solita rabbia, e Berninger più volte piegato sul propri fan, i quali fanno di tutto per toccarlo e abbracciarlo, e nei bis con la già citata “Mr. November”, quando il bagno di folla diviene non più solo un modo di dire, ed emerge in maniera definitiva l’unione sentimentale che lega la band al proprio pubblico.

Dopo “Terrible Love”, giunge l’epilogo: “Vanderlyle Crybaby Geeks” viene eseguita senza amplificazione e intonata all’unisono dall’intera platea, il cui coro sovrasta la voce di Matt. È l’emblematica apoteosi di una delle più grandi band del nostro tempo.
I detrattori continueranno a ritenere certi colpi di teatro di Berninger, ripetuti identici ogni sera, più il frutto di un copione precostituito che il risultato di una sana improvvisazione, con il risultato di rendere lo show prevedibile. Ma il donarsi ai propri fan in maniera così fisica, anche se architettato preliminarmente, non può non essere considerato un atto di grande generosità artistica, che stride piacevolmente con quell’aura distaccata che potrebbe emergere dall’ascolto dei loro dischi. Un concerto dei National è uno di quelli che tutti dovrebbero vedere almeno una volta nella vita. Alla faccia di tante stelline spuntate con la faccia imbronciata e l’atteggiamento da rockstar irraggiungibili che guidano insipide indie-band, delle quali fra qualche anno probabilmente non si sentirà più la mancanza.