
Una festa per gli occhi e per le orecchie lo show romano di Lenny Kravitz che ha arricchito il cartellone 2015 del Postepay Rock In Roma. Una serata che ha spazzato via qualsiasi dubbio circa le reali attuali capacità del musicista americano.
Da molti considerato decotto e senza più molto da dire, Kravitz (che, non dimentichiamolo, vinse una striscia di quattro Grammy Awards consecutivi come “Best Male Rock Vocal Performance” fra il 1999 e il 2002) ha condotto uno show che in due ore e un quarto è stato più forte di una dose di adrenalina pura, dimostrando che se i dischi recenti non sono all’altezza dei tempi migliori, sul palco la forza della rockstar resta intatta.
Ma l’evento di stasera non è stato solo Lenny, prima di lui si sono susseguiti due opening act di altissimo livello: prima The London Souls, efficace duo basso e batteria non distante dai Black Keys più ispirati, poi Gary Clark Jr., il nuovo Ben Harper, che si è esibito full band in un convincente set nel quale ha alternato blues, rock e soul, eccellendo in tutti gli stili, una gran bella scoperta per chi ancora non aveva avuto occasione di apprezzarlo.
Dopo due “spalle” del genere si può rischiare la figuraccia, non è il caso di Kravitz, il quale irrompe sul palco con a fianco una line-up allargata: la chitarra di Craig Ross, il basso di Gail Ann Dorsey, la batteria di Cindy Blackman, più tastiere, tre coriste e tre fiati, e sono subito fuochi d’artificio con “Frankenstein”, movimentata traccia che risulterà uno dei due soli estratti dall’album più recente, “Strut”, pubblicato nel 2014.
Per il resto si pesca quasi esclusivamente dai primi lavori, mettendo in sequenza brani divenuti nel tempo dei classici, molti dei quali diluiti con intermezzi strumentali all’insegna di un energetico funk-rock che non annoia neanche per un minuto.
“American Woman” è puro riff-rock, “It Ain’t Over ‘Til It’s Over” l’arcinota delizia in falsetto, “Believe” il meraviglioso ripescaggio che non ti aspetti, “Always On The Run” una jam con dentro lunghi soli di sax, tromba e batteria, “I Belong To You” la ballatona da mattonella che non può mancare.
“Let Love Rule” viene protratta per oltre venti minuti, mentre Lenny scende in prossimità del pubblico per andare a prendersi l’abbraccio dei fan, la successiva rockeggiante “Fly Away” chiude la prima parte dello spettacolo fra gli applausi entusiasti degli spettatori.
Tocca a “The Chamber” (l’altro brano da “Strut”) riaprire i giochi e preludere al delirio collettivo finale, provocato da una lunga versione di “Are You Gonna Go My Way” sulla quale Kravitz invita a salire, imbracciare la chitarra e cantare un tizio pescato fra il pubblico delle prime file. In realtà, la scelta non è casuale, scopriremo in seguito che il personaggio è il cantante di una cover band di Kravitz, e Lenny si prende i suoi cinque minuti di relax filmando la performance con una telecamera.
Il concerto è stato di gran lunga superiore alle più rosee aspettative, in grado di far arrossire certi compitini buttati là con faciloneria da tante formazioni iper-osannate. Qui c’è un artista in grande forma fisica e artisticamente intatto (molto più intatto di quanto possa trasparire dai suoi ultimi lavori in studio) che dimostra voglia di suonare e di appagare i propri fan, senza risparmiarsi. Non certo un effimero sex-symbol, ma un artista solido e instancabile. Chapeau.