
Quella dei Acid Mothers Temple di Kawabata Makoto - nella loro edizione più iconica, Melting Paraiso U.F.O. - presso Spazio Aereo di Marghera, è una delle date più attese per tutti i cultori del nordest della psichedelia più radicale.
La comune cui fa capo il complesso (base a Osaka, Giappone) si è imposta a partire dalla seconda metà dei 90 come una fucina di talenti della musica lisergica, un sunto maestoso di cavalcate cosmiche feroci che coprono decenni di musica avventurosa, dalla pura cacofonia all’avanguardia elettronica, dalle jam degli acid trip al minimalismo classico, dalla grammatica di grandi teutonici dei 70 alle progressioni barocche.
Aprono l’evento due promettenti realtà nostrane, i Sonicatomic (vibrante jazz-punk) e i Plastic Experience For Vegetable Sons (post-rock drone alla Yume Bitsu). Quando poi gli Acid Mothers salgono sul palco, con una nuova e ancor più affilata sezione basso-batteria, bastano pochi potentissimi tocchi d’improvvisazione caotica per sconvolgere le percezioni. Il loro immaginario evoca e fonde tra loro samurai lisergici, guerrieri spaziali, monaci ascetici, cabaret erotici kitsch, terroristi sonici, buontemponi demenziali, vandali elettronici.
I quattro decollano propriamente con i climi densi, ancestrali, asfissianti di “La Novia”, cantata in coro e poi elevata a concertazione possente e infinita in “Acid Mother Sky” (la loro versione di “Mother Sky” dei Can). Ma è solo l’inizio. Dopo una breve pausa convenzionale, l’unica di tutto il concerto, le porte si spalancano al loro formato prediletto, una jam ininterrotta che trascende qualunque cosa, qualsiasi impostazione, dal mantra ripetuto in eterno, condotto impeccabilmente da un Makoto in trance, al free-form, spesso territorio esclusivo del compare storico Higashi Hiroshi e della sua pigolante tastiera delle stelle.
Che le sorgenti da cui si alimenta il loro motore siano brani propri o altrui (per esempio una “Wizard” dei Black Sabbath), il risultato è sempre un crescendo, un intensificando, e talvolta anche un accelerando supersonico, che saetta, sfreccia e svirgola al di sopra della notazione musicale, un’esperienza psicotropa che coinvolge l’astante per portarlo a forza al limite delle possibilità di ascolto.
Tra cavalcate in controtempo e baccanali devastanti senza quasi fine, l’affinità più spirituale della combriccola è soprattutto con i Gong, che culmina epicamente quando Kawabata intona la cantilena mantrica di “Flying Teapot” in mezzo al baccano più lancinante, facendo intuire di essere nel bel mezzo di un circo cosmico di quelli che piacerebbero a Daevid Allen, con rinnovata, fulgida potenza. Un altro momento glorioso è la loro personale versione techno ribattuta di “Pink Lemonade”, incalzante da far muovere tutto il locale, per poi pian piano transitare nell’usuale frastuono lisergico senza misericordia. E il gran finale, una versione compact di “Cometary Orbital Drive”, è semplicemente una summa se possibile ancor più sfinente di quanto ascoltato fin prima, per un totale di quasi due ore di live intensissimo.
Nonostante quindi una line-up rivoluzionata verso le nuove leve, la loro compattezza è più granitica che mai (specie il batterista, un uomo-macchina che sciorina rullate devastanti, degne di Jaki Liebezeit). Gli Acid Mothers contendono ai connazionali Boredoms la palma di live-maratona e di visionarietà tout court. Le loro suite eterne, mentre riempiono tutti gli spazi del locale, ricordano e lasciano impresso un cosmo freak-out, che ha sia memoria austera delle radici folk sia la consapevolezza del futuro ignoto, del linguaggio a venire. Nessun bis: dopo di loro, il vuoto dello spazio.
(contributi fotografici a cura di Andrea Sanson)