Le premesse, stavolta, non erano delle migliori. Nella precedente data italiana di Firenze, infatti, i Massive Attack erano stati fischiati per la breve durata del set (poco più di un'ora), per l'assenza di alcune hit storiche e per le prestazioni incerte di Robert Del Naja, costretto a interrompere un brano e a scusarsi poche ore dopo lo show alla Visarno Arena con un post su Facebook: "Mi dispiace, non mi sentivo bene e ho perso la voce un paio di volte".
Così, è con un pizzico di preoccupazione mista a euforia da prima volta (non ero mai riuscito finora a incrociare dal vivo il gruppo di Bristol) che mi avvicino al seggiolino della Cavea, non prima di aver incrociato gli inossidabili D'Agostino e Massarini, due di casa da queste parti, e di aver scoperto un più imprevedibile Carlo Verdone impegnato a immortalare l'evento in un selfie con la figlia Giulia. A conferma di come i Massive Attack siano uno dei pochi nomi fuoriusciti dal calderone dei Nineties in grado di unire più generazioni, nel segno di quel Mucchio Selvaggio sonoro dal quale hanno mosso i primi passi.
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Alle 21.45, come da protocollo, parte lo show e subito il palco si colora di neon, simboli e insegne luminose per "United Snakes", un
meltin pot della politica mondiale con particolare riguardo alla realtà britannica, tra "Ukip", "Labour Party" e allusioni alla famigerata Brexit, stigmatizzata apertamente da Del Naja, Marshall & C. quando poi presentano "Eurochild", il brano scritto proprio alla nascita dell'Unione Europea e che ora resta solo un condensato d'amarezza e di rimpianti. Proliferano informazioni e suoni, ma soprattutto i ritmi, con le due batterie incalzanti che non lasciano scampo, unite al solito basso da caverna dub.
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Poi, giù il cappello: la scena è tutta per sua maestà Horace Andy. La sua voce ebbra, sulfurea e impastata di vibrazioni reggae avvolge la Cavea in una cappa mistica: "Hymn Of The Big Wheel" (da "Blue Lines", 1991) si snoda sinuosamente, accompagnata da una sequenza spiazzante di messaggi, vomitati a ripetizione dal maxischermo (rigorosamente in italiano): "Qual è lo scopo della vita? Servire il bene supremo. Dove sei? Mi trovo nel nulla. Qual è lo scopo di morire? Avere una vita. Qual è la definizione di etica? Non ho etica". Non un telecomizio paraculo, piuttosto un bignami della confusione - morale, prima ancora che politica - che impera nella società occidentale. Con quella punta di
humour britannico e
nonsense che non guasta mai. Perché il concerto dei Massive Attack non aspira a essere una delle grandi kermesse dell'estate, ma punta solo a concentrare in poco tempo il messaggio politico-musicale della band inglese. Anche attraverso la sequela di nomi che scorrono alle spalle di Andy in "Girl I Love You" (da "
Heligoland", 2010), da Karl Marx a Marlene Dietrich, da Edward Snowden a Sigmund Freud. Il senso è quello di una comunione universale come unico antidoto alla violenza e al terrore dei nostri tempi. Il senso del vecchio Wild Bunch, in fondo. "Uniti, insieme siamo più forti... Collegati... Condividi... Aperta... Fidarsi". Anche di fronte alla sfida dell'immigrazione di massa: "Mio padre si è trasferito in Gran Bretagna da Napoli, siamo tutti migranti", ci ricorda il cantante. E la Cavea - gremita come nelle occasioni migliori - si scalda sempre più. "Bravi, bravissimi", scandisce qualcuno, semiserio. "Roberto!", invoca qualcun altro. E giù applausi, anche (troppi) durante l'esecuzione dei brani, come quando su una lussureggiante "Inertia Creeps", imbevuta di spezie mediorientali e angoscia postatomica, spuntano messaggi che ricordano il caso di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano torturato e assassinato in Egitto.
Neanche stavolta c'è "Teardrop", né la grazia di una
Martina Topley-Bird a surrogare l'ugola angelicata di
Elizabeth Fraser. Ma a tenere alto il vessillo dell'epocale "
Mezzanine", oltre alla succitata "Inertia Creeps", provvedono quell'altro prodigio di "Risingson" - con il recitato rap di Daddy G immerso in un abisso claustrofobico di suoni elettronici, scolpito dal solito basso granitico - e una sontuosa "Angel": il salmodiare carismatico di Andy effonde echi e vibrazioni sempiterne nella calda notte romana, e senti che forse può bastare già questo a farti felice. È uno dei momenti più commoventi della serata, che culmina in una standing ovation collettiva per questo immenso sciamano del reggae.
Il capitolo più recente, l'Ep "
Ritual Spirit" (2016), è rappresentato dalla torbida
title track e da quella classicissima "Take It There" che suona quasi come un amarcord della stagione d'oro del
trip-hop, tant'è che nella versione in studio è stata incisa insieme al redivivo ma sempreverde
Tricky.
La chiusura del set, però, è tutta nel segno di una sgargiantissima Deborah Miller, che sfodera una
performance maiuscola per una maestosa "Safe From Harm", cui segue sullo schermo una sequenza di "Je suis" (Charlie Hebdo, ma anche Orlando, Nizza, Istanbul, Baghdad, Bangladesh, Kabul etc.).
Acclamati a gran voce, Del Naja e compagni ripiombano sul palco, ma per un solo, ultimo brano. Che è però quella bomba di nome "Unfinished Sympathy" (altra prodezza di "Blue Lines") che la Miller trasforma in una liturgia potente e universale, raggiungendo picchi vocali sconosciuti a noi umani. Ma proprio in pieno orgasmo collettivo, sulle vertigini di quel drammatico crescendo orchestrale, l'incantesimo si spezza. Come un
coitus interruptus. Tutti via dal palco in un nanosecondo, e dalla terrazza dell'Auditorium partono dei beffardi fuochi d'artificio, accolti più con fischi che con applausi, da un pubblico che si lascia andare anche a qualche imprecazione di troppo ("Ladri!", "Ridateci i soldi!"). Perché un'ora e venti di concerto, anche se densa di emozioni, evidentemente è considerata uno scippo. Li hai abituati troppo bene,
Bruce Springsteen, ma perdonaci se alle tue generose e torrenziali maratone preferiamo anche questo breve, ma intenso amplesso bristoliano.