
Arrivati a questo punto si è ormai creato uno storico di tutto rispetto per gli eventi musicali ambientati nel Labirinto della Masone di Franco Maria Ricci: un rifugio esoterico entro il quale si realizza efficacemente una sospensione della realtà quotidiana, al fine di perdersi totalmente, nel corso di qualche ora, in una realtà parallela di musica e luci innaturali, di scuro e pregnante totalismo estetico.
Illustri precedenti come Sunn O))) e Ulver – in apparenza casi isolati – non hanno fatto altro che aprire la strada al (se possibile) ancora più ambizioso e strutturato LOST Festival, prima edizione di un format site-specific che possiamo soltanto augurarci si ripeta in futuro con pari magniloquenza.
Siamo al tramonto di sabato 8 giugno: ieri il maggior richiamo per il pubblico è stato rappresentato dal ritorno di un progetto storico come Cabaret Voltaire, mentre questa sera ci aspetta un raro e formidabile trittico di matrice drone/electronic, con due numi tutelari quali Tim Hecker e Ben Frost, nonché l'emergente Maria w Horn. ® Stefano Zerbini
Alla sound artist svedese spetta l'inaugurazione del programma. Era difficile immaginare come avrebbe potuto declinare, in un contesto estivo e all'aperto, le sonorità “para-liturgiche” dell'inafferrabile “Kontrapoetik”, un subliminale incrocio tra ricerca etnografica, soundtrack e sperimentazioni sia analogiche che digitali. Ebbene, la peculiare narrazione di Horn si presenta qui in una veste massimale e perturbante, ampiamente giocata sulle frequenze basse e i tonfi sordi che ne costituiscono lo ieratico tessuto ritmico.
Come già su disco, la sequenza “recitata” rimane il fulcro del set assieme a una meditazione dal suono d'organo relativamente conciliante, mentre le sezioni circostanti mantengono viva l'impressione di un ritualismo assai più viscerale e contemporaneo, fra strati grezzi di elettronica espulsi frontalmente con violenza. Non è dato sapere se il set approntato sia un'eccezione in risposta alla particolarità del festival e della location, ciò non toglie che sia stata una sorprendente introduzione al successivo apice “poetico” dell'evento. ® Stefano Zerbini
Da diversi mesi Tim Hecker si esibisce assieme ai musicisti giapponesi di un ensemble gagaku, elemento difforme che ha dato agli album complementari “Konoyo” e “Anoyo” una profonda e inconfondibile identità sonora. La presenza fisica delle percussioni e degli strumenti a fiato – primo sul palco lo shō, già rivelato all'Occidente da John Cage – accentua ancora di più il carattere lancinante e malinconico del concept di Hecker, specchio di un'esistenza fuor di sesto e senza possibilità di redenzione, e sul quale i richiami ancestrali del Konoyo Ensemble sembrano interrogarci con un vivo e presente monito. La “regia” di Hecker affonda le voci acustiche nelle sue ormai consuete saturazioni di bassi, attraversati da nuances melodiche sublimi ma disincantate, forgiate come sono nella dolente consapevolezza del caos esistenziale postmoderno.
Passano meno di cinque minuti dal generoso applauso quando il pubblico si calamita spontaneamente al centro del portico, affacciato sulla piramide posta al limitare del labirinto di bambù: di fronte al mixer circondato da cordoni prende posizione Ben Frost, tutt'intorno si illuminano come totem gli amplificatori dai quali viene diffuso l'inedito set in ottofonia “Widening Gyre 360° Surround Sound Show”, presentato a LOST in esclusiva italiana. Più che un live, una vertiginosa installazione sonora che simula lo spostamento del suono in onde concentriche, che dalla postazione di Frost si propagano tra la folla, attorniata da un costante (e non di rado violento) sciabordare di onde sonore.
Estratti dall’ultimo “The Centre Cannot Hold” si mescolano a sguardi su un futuro prossimo che parrebbe confluire in quella “estetica del collasso” con cui si sono confrontati Paul Jebanasam, Roly Porter e la più destrutturante corrente hi-tech. La macchina distopica di Frost sembra auto-alimentarsi per mezzo di masse implosive che si rigenerano attraverso la forza motrice stessa, in un turbinio che solo a tratti lascia il tempo per alzare lo sguardo verso un magnifico cielo stellato, che ora ai nostri occhi rimane egualmente diviso tra minacciosità ed estasi. ® Stefano Zerbini
Tra l’organizzazione sempre impeccabile e il programma di livello stellare sarebbe difficile – e fors’anche ingiusto – lamentare qualcosa: tuttavia, a motivo dei molteplici caratteri esperienziali, eventi così trasversalmente allettanti finiscono per convogliare anche una porzione di pubblico più superficiale che tende a spazientire chi cerca di mantenere la concentrazione sulle performance musicali, per quanto fragorose. È pur sempre un compromesso da accettare, ripagato in pieno da un altro indelebile ricordo legato al labirinto di Fontanellato, scrigno oscuro (non più) nascosto nel parmense.