Guardando soltanto agli ultimi mesi di pubblicazioni in ambito elettronico cominciano a emergere alcuni punti fermi e significativi: se da un lato, infatti, resta quasi impossibile tirare le somme in un labirinto di tendenze e sottogeneri sempre più frammentati, dall’altro si ha la netta impressione che alcuni artisti abbiano quantomeno tentato di cristallizzare lo zeitgeist di un terzo millennio che oramai avanza ed evolve a una velocità incontrollabile.
Abbiamo dunque le immediate propaggini di quell’estetica anti-espressiva e schizofrenica che ormai regolarmente definisco “incubo digitale”: il raggelante cut-up manifesto di Oneohtrix Point Never, la ninfa disumanizzata Holly Herndon e, in coda, il rampante e prolifico /F, prodotto deviato di una tecnologia che ha preso il totale sopravvento sul raziocinio.
E poi abbiamo coloro che invece, da qualche tempo in più, inseguono visioni estreme e totalizzanti, al confine ultimo con una sacralità nella quale convivono il turbamento e l’estasi. Non è dato sapere se la ricerca sonora di Lustmord e dell’ultimo Roly Porter, di Tim Hecker e della comprimaria Kara-Lis Coverdale si spieghino solo in una convergenza di sensibilità, o se si tratti invece di una reazione inconscia alla crisi d’intenti e di logiche del nostro tempo - e dunque della sua rispettiva manifestazione in musica.
Se volendo semplificare arrivassimo a stabilire questo discrimine, allora potremmo situare “Continuum” all’epicentro di tale dicotomia: a quasi tre anni da un esordio intenso e centrato come "Rites" (Subtext, 2013), degno della miglior tradizione dark-ambient, l’anglo-srilankese Paul Jebanasam dà alle stampe un secondo Lp che, reinserendosi in un discorso divenuto così complesso, accetta un livello di permeabilità tale da mettere a serio rischio l'equilibrio del suo sound denso e stratificato.
Inseguendo le suggestioni dell’artwork in stile H.R. Giger e dei titoli assegnati alle tracce, diremmo che Jebanasam abbia ottenuto l'accesso, approfondito e rielaborato un formulario a noi oscuro, e con un hacking forzoso abbia poi innescato la preview sonora di un mondo in corso di disfacimento, minato alle fondamenta del suo copioso codice binario. La superficie dell'impero antropico e degli oceani vacilla, pare dissolversi sotto i nostri occhi un pixel alla volta, sotto il violento influsso di taglienti folate elettroacustiche che richiamano la profetica avanguardia di Bernard Parmegiani, il quale a partire dalla concretezza del suono mise a nudo le energie soggiacenti alla realtà tangibile.
Un profondo, dolentissimo senso di perdita attraversa i tre movimenti di quella che, con un ardito parallelismo, potremmo considerare una sinfonia elettronica, il cui adagio centrale non è altro che l'accertamento di un ineluttabile diluvio basinskiano; uno spirito autenticamente romantico e decadente si fa messaggero di questa disgregazione tutto sommato elegante, rassegnata, come in un estremo impeto di dignità per ciò che si è comunque riuscito a costruire.
Da ultimo, come nell’apice e momento risolutivo della “Suite Lirica” di Alban Berg, il terzo scenario si avvia a un presto delirando che rinsalda il contatto espressivo con Roly Porter ed eleva a potenza l’ipercinesi di “Third Law”, raggiungendo una vertigine insostenibile e infine costringendola a ripiegarsi in un programmatico largo desolato; solcata da comete rapidissime, si erge un’ultima veduta/visione celeste, panacea salvifica di un Creato che qui e ora, mentre va incontro alla notte del mondo, appare di così poco conto.
Non s’è mostrata alcuna tragicità nell’epilogo: la netta sensazione è che tutto dovesse conciliarsi in questa stessa maniera, ristabilendo l’ordine supremo e primigenio di ogni cosa. Come a dire che forse, nella pienezza dei tempi, più che al terribile spettacolo di un’apocalisse assisteremo alla sublimità di una confortante apocatastasi.
11/02/2016