Non ho intenzione davvero di ammorbare nessuno con i discorsi sulla Pc Music – qui intesa non, o non solo, come label, quanto come categoria dello spirito o giù di lì - sulla musica come contaminazione, sul ruolo del fondersi e dell’amalgamarsi del diverso e degli opposti. Non vorrei cadere nei discorsi cliché dell’ibridazione, dell’incontro di anime diversissime, del paradosso come anima di un disco. Coordinate base di Holly Herndon: 1980 e Tennessee, poi Berlino, ora San Francisco. Ed è qui che mi accorgo di fare un accostamento banalissimo e di cadere in ciò che avrei volentieri evitato. Nella fattispecie: la Silicon Valley e quanto la musica ad alto contenuto robotico della Herndon sia influenzata dal luogo dove ora vive. Debuttò un paio di anni e mezzo fa su RVNG Intl. con un disco – “Movement” - che lei stessa definisce estremamente chiuso in se stesso. “Platform” invece, almeno nelle intenzioni, si apre. A cosa? Al diverso, alla contaminazione. E qui cado nella seconda banalità. La fusione con gli opposti, o quantomeno l’utilizzare categorie, elementi e strumenti interpretativi che permettano tutto questo sta alla base di “Platform”.
Holly stessa spiega come, nel corso della gestazione di questo nuovo album, si siano intrecciati piani esperenziali e di contenuto distanti tra loro: architettura, filosofia, design, etnografia. In un groviglio – terza banalità – che è esso stesso piano esperenziale e ragione del lavoro. Ben Singleton – cui la Herndon si ispira - è un studioso di filosofia e design che espone una teoria secondo la quale progettare il futuro non significa pianficarlo quanto costruire una piattaforma dove le persone possano confrontarsi attraverso le modalità comunicative più disparate.
La giovane americana vive il problema della sua musica come un terreno non arido ma aperto all’altro. E si pone in maniera problematica rispetto a quanto la musica sia ambito escapista, tentando in ogni modo di sottrarsi a ciò. Cosa peraltro abbastanza evidente solo scorrendo la lista dei collaboratori (ci si troverà economisti dediti allo studio del “neofeudalesimo digitale”, per dire). “Platform” è dunque un lavoro strettamente politico per sua stessa natura, per chi l’ha originato, per le idee che si intrecciano, per il ruolo non assolutamente secondario dei soggetti coinvolti. Una simile e così articolata commistione la ricordo con l'analisi sul femminismo in “Shaking The Habitual” dei The Knife, ma difficilmente rintracciabile in altri lavori recenti.
Ma a cosa è finalizzato tutto ciò? Che piattaforma vuole porre Holly Herndon? A me pare che il vero tratto vitale di “Platform” stia nel suo parlare a una comunità più ampia possibile. In primis attraverso la musica, e in questo lo stacco col disco precedente è nettissimo. Guardi la copertina e c’è questo grigio tirato a lucido, questo rosso vivido e il suo viso sezionato ora geometricamente ora con linee morbide. E’ così che – anche graficamente - la ruvidezza cupa dell’esordio lascia qui spazio ad altro. Il modernariato pop di “Platform” è quello dell’Hd a tutti i costi, è l’alta definizione formato 1080px. Herndon lavora sulle voci, le trasforma in matrici, come se fosse la musica ad essere incastonata sulle parole. Come se schizzasse fuori dalle parole.
Intendiamoci, “Platform” non è “Dolmen Music” di Meredith Monk, ma vi si avvicina per l’insistenza del ruotare attorno all’elemento vocale, completamente destrutturato e ricomposto. Di continuo. Si potrebbe citare, a tal proposito, l’immenso lavoro che da anni Agf sta facendo. Lo spoken di “Platform” è autistico nel suo essere continuamente reiterato, spezzato, dilatato, giustapposto, loopato. Mai fermo su se stesso, continuamento mutato. Nel contempo però - quarta banalità - parla una lingua che è tirata a lucido, contemporanea, pulitissima, volutamente finta. E proprio per questo assolutamente realistica e visivamente, oltre che musicalmente, autentica.
In mezzo? In mezzo c’è questa deriva della pop music infognata nell’ibridazione warpiana di un Rustie, di una Bjork di primissimo pelo se avesse vissuto le avventure di QT, un qualcosa di concettualmente legato a una Sd Laika a caso virata zucchero. “Home”, per citare un brano, è puro Oneohtrix Point Never, il fantastico singolo “Chorus” è emblema fin troppo catchy di questa tensione continua, e che si respira in ogni singolo frame, tra svolazzi col beat scassatissimo e interruzioni/stasi inaspettate. I silenzi e i field recording di “Lonely At The Top”, le tracce dell'Alva Noto-glitch-oriented in “Dao” e via scorrendo, con un campionario di musiche completamente immerse nel futuro imminente. Tirato a lucido ma non autoreferenziale, che vive il presente in una tensione che non è affatto egotica.
“Platform” questo fa, tenta punti di contatto con l’odierno, tenta di coglierne le sfumature e la sua armonia, in una dimensione puramente immersa in una realtà che è (im)mediata. Ascoltandolo e riascoltandolo, pare quasi che il punto di contatto che Holly Herndon vuol far passare non ci sia, o meglio: che la sovrapposizione tra realtà virtuale e piattaforme reali sia nelle cose. La tensione tra i due ambiti registrata nel disco non è diversa da quella di un chewing gum: assume diverse forme e dimensioni, ma il peso specifico e il nucleo fondante non mutano. In sostanza: sono la stessa cosa. Una realtà che, nel suo essere così virtuale e contemporaneamente così legata alla carne, ebbene lo è a tal punto da essere diventata umanoide. E' la protesi che il corpo assorbe e riconosce, che non rigetta. Che è a tal punto reale da superare la realtà stessa. E questo è un album che vive e si sviluppa come intersezione di saperi e che nell’ascolto non può non prescindere da un lato visuale. Straripante nel suo essere schizofrenico, oltre ogni incastonamento di generi. Programmaticamente e artificiosamente. Mi sono chiesto se esista un luogo reale dove “Platform” possa vivere nel suo essere un concept-album. Forse 4Chan, più probabilmente Porn00.org.
01/05/2015