
Di Paolo Conte si può e si deve assaporare tutto. La biografia, la storia, le parole, gli arrangiamenti, i riferimenti al passato, sia quelli velati che quelli più espliciti ma sempre invitanti. Insomma, un microcosmo di fascino, un sottoinsieme della canzone italiana che l’avvocato-bardo di Asti, ad oggi prodigiosamente ottuagenario, ha sempre preservato con tempra ed eleganza.
In questo magnifico “rebus” manca però il valore aggiunto del live. I dischi dal vivo - cinque: non pochi per un cantautore, e già questo la dice lunga - sono indicativi e di certo aiutano a sopperire la mancanza. Ma, com’è intuibile, niente si avvicina all’emozione di vederlo, sentirlo, percepirlo a distanza di qualche metro, sopra un palco. E l’occasione è delle migliori, data la location d’eccezione - la settecentesca villa Pisani di Stra, sontuosa e, guarda caso, enigmistica (come giardino ha un labirinto di siepi, ndr) - l’evento in cui è ospitato, l’organizzatissimo Venezia Jazz Festival (in cartellone, tra gli altri, ancora Yann Tiersen, Stefano Bollani e Park Stickney), e, ultimo ma non ultimo, una fresca sera d’inizio estate, che costringe anche l’autore a bardarsi d’uno scialle verde acqua.
Poco importa se l’impostazione del set è pienamente consolidata, standardizzata al limite della prevedibilità. I dieci musicisti di corredo sono sempre loro, a cominciare dal prode Jino Touche al contrabbasso (un primo album solista nel 2014), ma spesso cambiano strumento e si riconfigurano, quindi comprendendo anche gli immancabili bandoneon e fisarmonica, tra sezione fiati, sezione cordofoni con violino e mandola, sezione ritmica e percussioni. E poi le canzoni. A parte un paio di estratti dall’ultimo “Snob” (saltato a pie' pari, come da copione, “Amazing Game”), tra cui il brano eponimo, per pianoforte a quattro mani, e “Tropical”, e una rara ma ormai gettonata proprio dal vivo “Le Chic Et Le Charm” (col suo mitico kazoo), la parte del leone la fanno di certo i grandi classici. Conte attinge a piene mani dalla trilogia del suo fulgore artistico, “Paris Milonga”-“Appunti di viaggio”-“Paolo Conte” (oltre a due assi di “Aguaplano”), estraendo, più che vere e proprie canzoni, simboli mitici, atmosfere cristallizzate, storie senza tempo, e tanti, tanti brividi.
Il saliscendi di emozioni è impareggiabile. “Gioco d’azzardo” è diventato uno struggimento che sembra un requiem ai ricordi andati. Dato che il jazz in Conte non manca mai, “Diavolo rosso” assume le fattezze di una spettcolare jam di dieci e passa minuti con triplo assolo culminante in un violino vivaldiano. “Alle prese con una verde milonga”, anche se ascoltata diecimila volte, riesce ancora a suonare come una narrazione indecifrabile, una fattucchieria di seduzione misteriosa. Si passa al Mocambo con “Gli impermeabili”, ed è un regalo commovente. Vi è la dedica di “Madeleine”, lo swing di “Dancing”, i tentacoli melodici di “Max”, il tamburellare di “Come-di”. E di certo “Via con me”, forte di un delizioso intermezzo-variazione di bandoneon e violino, che Conte ripete in chiusa, accelerata, regalando il refrain al coro del pubblico, e di più ancora la magia intramontabile di “Sotto le stelle del jazz”. Il tutto è impreziosito dalle scenografie dei riflettori (rossi per “Diavolo rosso”, verdi per la “Milonga”, lampeggianti nei momenti topici etc.) che tingono, e un po’ stemperano, il rigore del colonnato della facciata retrostante.
Paolo Conte è sempre lui, sempre diverso. Vederlo attorniato da musicisti di qualità eccellente mentre lui sbotta e borbotta i suoi versi, quasi brontola, sempre distaccato e con una dizione felpata, ancor più impastata dall’età (che è, si badi bene, un valore aggiunto alla sua signorilità, non certo un deficit), è un’esperienza essenziale, da vivere persino urgentemente. Catalizzante, rinfrancante. Al punto che, come in un incantesimo, si finisce per descriverlo prendendo a citarlo di continuo, con quella “sua eleganza di zebra, il suo essere di frontiera”, in una “semplicità che non semplifica”, non convinti che “la rumba sia soltanto un’allegria del tango”. E così, “tutto il meglio è già qui”, perché ormai, com’è noto, “la canzone forse sa di ratafià”, anche se “non si capisce il motivo”.
(foto di Roberto Rosa)