“My feelings? About ten years ago, I hid them somewhere and haven’t been able to find them”, recitava Robert Mitchum nel capolavoro noir “Out Of The Past” di Jacques Tourneur, opera che Peter Milton-Walsh, da grande appassionato di cinema, ha recentemente indicato in un’intervista tra i punti di riferimento essenziali del suo immaginario. Tanto glaciale quanto illusoria, la battuta di Mitchum non era che un espediente per mettere a nudo l’impossibilità di abbandonare i propri tumulti interiori negli anfratti più reconditi del passato, giacché i demoni di un individuo non sono addomesticabili dallo scorrere del tempo e basta poco per indurli a rifarsi spazio nel profondo dell’anima.
Tale conflitto fra distacco apparente e ineluttabile fragilità del cuore costituisce proprio il punto focale dello sguardo di Walsh, che, nel 1995, ne fa la forza motrice per una tormentata collezione di memorie dal titolo programmatico "A Life Full Of Farewells". Personaggio ombroso ma celebre nella scena australiana di fine anni 70, tanto da diventare per qualche tempo un membro dei Go-Betweens, Walsh arriva al punto più alto della sua discografia quando ormai la finestra in cui si può sperare di far della musica un mestiere si è chiusa. Il suo esordio, ormai del 1985, fa sorgere un piccolo culto nella comunità indipendente, col suo jangle elegante e crepuscolare, ma non sfonda, se non in Francia, dove ancora oggi è un nome di buona popolarità. L'australiano impiega altri otto anni per pubblicare il seguito, "Drift", per poi imboccare un triennio (1995-1997) di inaspettata ispirazione, in cui darà un'identità ancora più definita al sound degli Apartments. Una vera lezione artistica che non tarderà a dare i suoi frutti.
Con la band ufficialmente consolidata in forma di trio (oltre a Walsh, Eliot Fish dei Big Heavy Stuff al basso e Mark Dawson alla batteria) e integrata da una sezione di archi e fiati, il songwriter australiano sceglie qui di dare voce all’amara contemplazione che (forse) precede una svolta cruciale, vestendo le sue confessioni di un pop cameristico intriso di malinconia, ma mai soffocato nello struggimento.
Ad aprire le danze provvedono le melodie di tromba di “Things You’ll Keep”, che, in ossequio a Burt Bacharach, disegnano una trama leggera e catchy, vagamente profumata di jazz, dando una parvenza di serenità presto dissipata da un flusso di ricordi torbidi come un cielo d’inverno. Walsh passa in rassegna con inquietante controllo toccanti diapositive di disfatte, come “The Failure Of Love Is A Brick Wall”, i cui arpeggi di acustica paiono affilarsi come coltelli su versi al vetriolo (“Failure came and took your hand, you always meant to miss it”), o “You Became My Big Excuse”, ballata con pedal-steel per spazi aperti osservati da una finestra, che dispiega con garbo il lato orrorifico dell’intimità (“The poison that I drink when I sink my teeth in you”).
Con la sua tensione emotiva trattenuta, eppure sempre palpabile, l’album scandisce i propri cambi di passo attraverso i contrappunti ora di un violino, ora di un violoncello, oppure di una tromba con sordina, così che ogni elemento si carica di una precisa finalità estetica, sia essa la figurazione di memorie lontane, ma ineludibili (i fiati di “Not Every Clown Can Be In The Circus”), oppure l’allusione a vie di fuga chissà quanto realisticamente percorribili (le stratificazioni misurate di “End Of Some Fear” e dell’incontenibile “All The Time In The World”).
Ogni momento di "A Life Full Of Farewells", per purezza cristallina delle melodie e sensibilità nel dialogo testi-arrangiamenti, è, a suo modo, memorabile; certo, a voler gettare la maschera, va detto che sarebbe difficile non riservare il posto del cuore a due riflessioni commosse come “Thank You For Making Me Beg” e, soprattutto, l’inenarrabile elegia per voce e piano “She Sings To Forget You”. È forse questa la massima espressione di un tono confidenziale che palpita costantemente sotto la patina colta e distaccata dell’arte di Walsh; un’arte il cui zenit è rappresentato da questo “Blood On The Tracks” in miniatura, opera di culto da custodire con gelosia e potenzialmente consacrabile a pietra miliare nascosta di quel chamber-pop che l’indie contemporaneo ha riportato alla ribalta.
06/12/2015