Disperate vocalità post-punk, attitudine new wave, robuste venature folk, impianto chitarristico memore del blues albionico e un uso dell'organo che sembra omaggiare addirittura Ray Manzarek e i suoi Doors: detta così pare la sinossi del solito progetto sedicente "eclettico" e immancabilmente destinato a risolversi in un guazzabuglio di suoni e stili senza capo né coda. E invece... Invece quella di "Free Dirt" è uno delle alchimie sonore più compatte nonché, ahinoi, uno dei segreti meglio custoditi dell'intera discografia rock degli anni Ottanta.
Da una manciata di singoli distribuiti tra l'84 e l'86 parte la storia dei Died Pretty, banda di cinque australiani uniti in nome dell'amore per i Suicide e seriamente intenzionati a far rivivere i fasti della fase proto-punk degli anni 70: ma il Presente li colse, li portò con sé e li abbandonò dopo un solo giro di danza. La strada tra le infinite steppe australiane che proprio "Free Dirt" immortalava in copertina si sarebbe arrestata solo qualche anno più tardi, al varco di un contratto Sony e di un paio di discreti successi sulle hit parade locali. Poi il nulla, almeno fino alle provvidenziali ristampe della Aztec, che proprio in questi giorni rimettono sugli scaffali la discografia dei nostri auspicandone forse una meritata riscoperta.
Dovendo pur partire da qualche parte la scelta non poteva che cadere sullo storico esordio, anch'esso rimesso a nuovo e riedito con l'aggiunta di un disco bonus. Anche le dieci tracce originali da sole, comunque, sarebbero bastate e avanzerete per farsi un'idea di come suonasse quello strano pastiche di cui sopra, supervisionato da un guru del Nuovo Continente come Rob Younger (leader dei fondamentali Radio Birdman e dei successivi New Christs).
Dal vivo i cinque di Sydney non avevano remore a spaziare da un lato all'altro delle loro lezioni rock, alternando (come testimoniano le bonus live track della reissue) cover dylaniane a rifacimenti di Lou Reed e di Pere Ubu, (il nome della loro prima incarnazione, Final Solution, suona come un chiaro omaggio a Thomas & C.) a seconda di come girava la serata: non si trattava però - ribadiamo - dell'autocompiacimento del virtuoso che gongola della sua cultura di trasversale e si vanta di poter suonare tutto e il contrario di tutto. I Died Pretty, che virtuosi non erano affatto, si avvalevano piuttosto di una posizione libera da movimentismi e da classificazioni troppo rigide, anche in virtù della loro provenienza dalle periferie dell'impero anglofono. Laggiù una nutrita schiera di altre alternative band ora dimenticate (che dovevano vedere i Church e i Birthday Party quasi come i "cugini fortunati") li avevano tirati dentro, in un elettrizzante clima di gioco che invitava a disporre le proprie collezioni di vecchi dischi su spartiti decisamente più "contemporanei".
"Free Dirt" si apre sulle robuste cadenze folk-punk di "Blue Sky Day", con il canto enfatico e possente di Ronald Peno ben supportato dalla chitarra acida di Brett Myers e dall'interplay di violino (Julian Watchhorn) e mandolino (John Papanis). A innalzare il ritmo è la cavalcata country-punk di "Wig Out", intrisa di sapori celtici e alticcia nel suo incedere frenetico, propulso dal drumming marziale di Chris Welsh. Abbrivio country, di marca quasi younghiana, anche per "Through Another Door", con le svisate roots della pedal steel guitar di Graham Lee che lasciano poi il campo al tempestoso assolo di sax di Tim Fagan.
Un organo quasi manzarekiano, invece, fa da padrone nell'ossessiva "Round & Round", sfregiata da un'altra irruzione del sax, e nella torbida ballata psichedelica à-la Velvet di "The 2000 Year Old Murder", mentre il punk di "Laughing Boy" e l'inno quasi sixties-garage di "Stoneage Cinderella" (aggiunta come bonus track nelle edizioni per il mercato europeo e nordamericano) ergono poderose muraglie di batteria-chitarra ad assecondare il vocalismo stralunato e teatrale del cantante.
Attorno a un piano-blues (Louiss Tillett) si snoda la morbosa liturgia di "Life To Go", mentre le sferragliate chitarristiche in crescendo e le tastiere ipnotiche di "Just Skin" riportano in territori psichedelici. E poi c'è il tour de force di "Next To Nothing": un baccanale stoogesiano per chitarre, organo tastiere e sax, che decolla tra continui sbalzi di tono e di ritmo, con il cantato di Ronnie a reggere sempre il filo.
Tutto rientra dentro un unico progetto musicale, decisamente rappresentativo dei suoi anni ma, al tempo stesso, distante da qualsiasi alternativa gli si possa affiancare. Una formula apparentemente semplice a cui però negli anni successivi nessuno si sforzò di dare un seguito, se non i suoi stessi proprietari, peraltro senza più l'ardore che percorreva questi solchi.
Proprio come "Marquee Moon", "The Psychedelic Sounds (of 13th Floor Elevator)" (o anche "Funhouse", se non fosse mai esistito il punk), "Free Dirt" è una di quelle opere destinate a essere poco conosciute perché uniche e senza possibilità di replica: possono giacere inascoltate per decenni ma quando le si ritrova rovistando nei ricordi sono lì, ancora giovani e pronte a regalare le stesse sensazioni di un tempo.
Contributi di Claudio Fabretti
10/01/2010
* Traccia bonus inclusa nelle edizioni europee e nordamericane del vinile. Le ristampe in Cd la spostano solitamente in fondo alla scaletta.