Le vite artistiche dei newyorkesi Eric Barrier e William "Rakim" Griffin s’incrociano, e incrociano la storia dell’hip-hop, per vicissitudini che talvolta sfiorano la semplice fatalità. E’ appena iniziata la seconda metà degli 80 quando Barrier intuisce di voler trasformare una carriera rimasta fino ad allora passivamente dietro le quinte. Il tempo è maturo per iniziare a creare, a imprimere quei suoni che l’allora semplice disc jockey Eric sperimenta ai party e alle radio locali. C’è però bisogno di un vocalist che dia valore, che rivitalizzi e faccia reagire le sue basi.
La sua prima scelta ricade su Jamie “Freddie Foxxx” Campbell, allora membro della crew dei Supreme Force, nonché performer già molto in voga nei circuiti hip-hop del periodo. Ma Campbell non si fa trovare all’incontro pattuito, e la bramosia di incidere almeno un singolo per Barrier è tanta. Così emerge un secondo nome, un rapper già meno visibile di Campbell ma altrettanto caparbio: William Griffin, già Kid Wizard e indi islamizzato in Rakim.
Quella che ivi nasce è l’unione perfetta di un Dj e un Mc, destinata a rimanere negli annali del genere non solo come memorabilia ma come matrice per le evoluzioni, stilistiche ma anche - perché no - di pose e icone, delle generazioni a venire.
La decisione di incidere assieme è risoluta, e altrettanto priva di ripensamenti è la session di registrazione (poco più di una settimana). Le linee di basso del singolo di debutto, “Eric B. Is President” (1986), da subito scolpiscono con passo felpato la loro forma di funk-electro. Rakim va a ruota libera in un salmo con eco pronunciata, mentre Eric scratcha e impagina i suoi breakbeat in un flusso compassato di suoni liberi, che alla fine prendono il sopravvento spezzando il flow del compare. E’ un brano-metafora che vale per tutta l’opera.
Il basso charleston di “Move The Crowd” sostiene un pattern di chitarra e tastiere: è un soul da party remixato e infine reso potente studio di laboratorio, con il rap di Rakim che s’inserisce alla perfezione tra cassa e rullante. La title track, altro grande soul dell’album accompagnato da un iconico fischio, narra di gesta e vicissitudini dell’afroamericano contemporaneo dal ghetto alla megalopoli; gli scratch di Eric in ogni caso non tacciono: verso la fine del brano risuonano quasi cosmici, ma distaccati, in disparte, quindi deformano mostruosamente un coro.
“I Ain’t No Joke” è un elegante assalto di rap scandito, marziale, con un inciso di sax deforme. Eric si fonde col suo stesso strumento. Da qui si giunge alla soundscape di “As The Rhyme Goes On”, ramingo duetto tra i botti di Eric e un rap incupito, appena accarezzato da un esile contrappunto di clavicembalo e da mareggiate lontane.
Il concerto di campioni e parole riverberate - sfrigolanti al limite della distorsione stereofonica - di “My Melody”, tutte imperniate sull’alienazione metropolitana, si svolge sopra una linea di ramingo carillon e capitola in un gran finale di dissonanze di giradischi e battiti industriali.
Due i numeri del solo Eric, due momenti in cui si ritaglia la sua gloria e appone il personale sugello all’opera. “Eric B. Is On The Cut” è totalmente imperniata sulle cacofonie robotiche, generate da un campione vocale-strumentale su una scattante base uptempo. Ancora meglio è “Chinese Arithmetic”, che prende il più stereotipato jingle di Chinatown e lo frantuma in campioni liquidi e dilania in una base insistente, una vera e propria fantasia virtuosistica a campionatore e giradischi che arriva a suonare come un surreale balletto metropolitano, un saggio da parte di uno dei più grandi secchioni del beat, una macchina di dissonanze.
Come ricorda Rakim, è un album che avrebbe dovuto avere più spazi per le singole personalità, lasciar scorrere il sangue che Rakim invece trattiene, e non rimanere oberato dalla stringente ispirazione del solo Eric. Ma è proprio questa la spinta vitale che ne fa uno dei più grandi album hip-hop dell’età dell’oro. Il suo flow multi-sillabico possiede un malleabile stile fluente, melismatico, sincopato, tanto rigidamente pedissequo al beat quanto libero e sciolto: non ha l’onda d’urto politicizzata di un Chuck D (Public Enemy), non ha l’esuberanza festaiola dei Run DMC, o il ringhio fatalista di Ll Cool J. Però possiede un po’ di tutto, lo liofilizza e ritrasmette per la seconda ondata dell’hip-hop.
Un album piano e quasi già deciso a tavolino, perfettamente studiato per escludere qualsiasi riempitivo (ma talmente corto che si decise d’includere un “Extended Beat”, base strumentale di “Move The Crowd”). Lo accerta e testimonia anche la co-partecipazione dello scienziato pazzo Marley Marl, il producer che per primo introdusse lo studio delle tecniche stereofoniche e l’uso radicale del campionatore negli album hip-hop, fino a coniare una delle sue colonne portanti, il breakbeat.
Tributato già all’epoca: il collettivo M.A.R.R.S. campiona l’imperativo-emblema di Rakim, quel “Pump Up The Volume!” tratto da “I Know You Got Soul”, per l’hit dello stesso anno che darà loro celebrità mondiale. Seguito dall’altrettanto valido “Follow The Leader” (1988) ma anche dai minori “Let The Rhythm Hit ‘Em” (1990) e “Don’t Sweat The Tecnique” (1992), l’album di un avvelenato scioglimento.
Barrier ha all’attivo un solo album prodotto in proprio prima del declino (“Eric B.”, 1995), mentre Rakim avvia solo nel ’97 una carriera in cerca dello stardom. Nessuna reunion ufficiale; fu annunciata una riedizione con inediti per il venticinquennale, mai concretizzata. Tra i campioni spunta un James Brown che darà a Barrier qualche rogna legale, e un insospettabile Fausto Papetti in “As The Rhyme Goes On”.
01/02/2015