Se si dovesse associare la parola leggenda a una band, a moltissimi verrebbe in mente il nome dei Faust. Padrini del kraut-rock, ma in generale nomi tutelari di tutto il rock sperimentale, i tedeschi hanno lasciato un segno indelebile nella storia del rock in appena tre anni di attività. Una parabola che inizia nel 1971 con lo storico esordio “Faust”, prosegue nel 1972 con “So Far” e si conclude nel 1973 con “The Faust Tapes” e “Faust IV”. Tutti album fondamentali, in particolare il primo, che dà inizio a una stagione memorabile, degnamente suggellata dall'epilogo del quarto lavoro, sorta di chiusura ideale del cerchio.
I Faust resteranno per sempre l'emblema del kraut-rock, non solo perché questa è l'opinione di Julian Cope nel suo “Krautrocksampler”, ma soprattutto perché hanno incarnato l'essenza stessa del movimento tedesco, accentuando la diversità e di autonomia rispetto alle influenze del mondo musicale anglofono. Pur senza rinunciare a frequenti rimandi a band come Beatles o Rolling Stones (citati in avvio di "Why Don't You Eat Carrots" come punto di partenza da superare per aprire a un nuovo mondo sonoro) o Pink Floyd (almeno tre brani del quarto album), i Faust hanno comunque rappresentato un tentativo nobile di sganciarsi radicalmente dalla onnipresenti influenze del pop-rock di matrice britannica.
“Faust IV” rappresenta una svolta per la band tedesca, composta da Werner "Zappi" Diermaier (percussioni), Hans Joachim Irmler (organo), Jean-Hervé Péron (basso elettrico), Rudolf Sosna (chitarra e tastiere) e Gunter Wüsthoff (sintetizzatore e sax). Da alcuni punti di vista, può apparire un tentativo di nobilitare il formato canzone classico (“The Sad Skinhead”, “Jennifer”), dall'altro un esperimento (riuscito) volto a distruggerlo ("Krautrock"). Al momento della sua pubblicazione, viene erroneamente percepito da molti come un processo di normalizzazione dei Faust (persino Julian Cope lo descrive come una “delusione tremenda”) e tendenzialmente ignorato dai contemporanei, persino più dei tre Lp precedenti, che di certo non sono stati successi commerciali (a parte “The Faust Tapes” che vendette addirittura centomila copie).
Il fallimento sarà così grande per la Virgin da segnare lo scioglimento della band e la morte in culla del loro quinto album (pubblicato solo nel 2022). Di certo, la copertina abbastanza dimenticabile non li ha aiutati - soprattutto se paragonata a quella immortale dell’esordio - ma il problema maggiore è che i Faust - come sempre - erano già troppo avanti rispetto al pubblico e all'industria discografica.
Già il brano iniziale “Krautrock” sembra provenire direttamente da un altro pianeta. Un gorgo elettronico suonato con strumenti tradizionali della musica rock che non vengono semplicemente destrutturati ma addirittura polverizzati, resi quasi irriconoscibili. In questo magma pulviscolare di note ci si ritrova in una via di mezzo sconosciuta tra viaggio psichedelico, musica cosmica, raga indiano, musica industriale ante-litteram e avanguardia spaziale. Comunque la si pensi, è un nuovo mondo, un manifesto del nuovo rock tedesco col quale i Faust - utilizzando proprio "Krautrock" come titolo del brano - si autoincoronano come padrini di tutto il movimento. Quando nel finale entra la batteria a far emergere ritmo e dinamicità, ci troviamo squassati da feedback lancinanti che tracciano un confine tra estasi e orrore, tra meditazione cosmica e orridi spaziali. Basterebbe questo per comprendere l'importanza di “Faust IV”, ma dopo aver polverizzato chitarra, basso e batteria, i Faust cercano di fornire una loro versione del formato canzone.
“The Sad Skinhead” è un brano bizzarro decisamente barrettiano, demenziale e delirante, un tentativo di canzone alternativa perfettamente riuscito. Il secondo capolavoro è però “Jennifer”. Una nota di basso tremolante e un breve arpeggio di chitarra danno l'avvio a una delle ballate più sbilenche e ambigue di sempre. Se c’è mai stato un modo per trasformare una ballata in qualcosa di non prevedibile o banale, di certo i Faust l’hanno trovato. Dopo una lenta melodia ipnotica, infatti, una nuova scarica di feedback travolge ogni consuetudine, dodici anni prima che i Jesus And Mary Chain costruissero sui loro muri distorti un’intera carriera.
Non mancano i riferimenti ai Pink Floyd più psichedelici, cioè quelli contemporanei ai Faust. "Just A Second" parte con un basso tipicamente watersiano, come un intenso trip lisergico che potrebbe ricordare “Ummagumma”, ma molto presto se ne distacca per un'improvvisa ondata di avanguardia decostruita. Tutto in appena tre minuti, quando la sensazione iniziale era di una lunghissima escursione psichedelica. Per fortuna nel 2006 verrà pubblicata la versione definitiva di undici minuti.
Ancora un basso floydiano apre “Giggy Smile / Picnic on a Frozen River”, ma tutto diventa uno scherzo, una parodia divertente con un finale quasi da musica per bambini, che tiene insieme l'ironia di Zappa e improvvisazioni jazz in un calderone inaudito.
I tre brani finali sono ancora in bilico tra scherzo e musica colta, coniugando il folk psichedelico minimale (“Läuft... Heisst das es läuft oder es kommt bald... Läuft”), elettronica noise (“Run”) e un nuovo folk, ancora una volta floydiano ("It's a Bit Of A Pain”), definito da Cope come “davvero triste”, ma in realtà rivalutato dopo vari decenni anche dai detrattori più accaniti.
La ristampa del 2006 mischia un po’ le carte, allungando o tagliando i brani, e contiene un piccolo ma significativo inedito, “Piano Piece”, breve improvvisazione di pianoforte che sembra uscita fuori dai "Faust Tapes”: un esperimento contenente i semi della musica lo-fi, del minimalismo e della musica ambient per piano, in grado di mostrare per l'ennesima volta il potente sguardo proiettato sul futuro che la band tedesca ha sempre mantenuto.
Si chiude un‘epoca, forse si apre invece un nuovo modo di intendere la musica popolare, nel quale al primo posto c’è solo la libertà del musicista rispetto agli obiettivi delle case discografiche. In questo, i Faust sono sempre stati un modello per ogni musicista davvero libero.
16/09/2023