L'anno è il 1980. Ma a che serve? La Londra che fa da sfondo a questo primo disco degli Iron Maiden sembra non avere età: del resto quando la luce del giorno, morendo, diviene immagine della vita stessa che si consuma irrevocabilmente, allora la notte, calando, cancella le forme e con esse il sentimento di oppressione e di limitatezza della città (e della vita senza sbocchi) di sempre e la trasforma in un'utopia, che tuttavia rimane temporanea, sempre legata alla percezione della realtà. Quest'ottica è la vera chiave di comprensione del disco in questione; la forza, l'esuberanza, la passione irrazionale convogliate in esso fanno sì che la sua bellezza rompa i limiti e divenga il segno diretto della grandezza dei musicisti, senza mediazioni, senza stratagemmi di maniera, senza leziosità e perdite di tempo: un capolavoro vero che parla da solo e dice moltissimo.
Per spiegare quel che questo Lp significa e comunica ancor oggi, a quasi tre decenni dalla sua uscita, occorre partire da un dato apparentemente superficiale. La copertina appare ancora oggi tra le più repulsive e affascinanti di sempre: la "Morte-in-Vita" (questo è, e non ancora Eddie come personaggio da fumetti) che sbuca dal suo agguato irradia la stessa luce dei lampioni dei bassifondi e della luna piena, e annovera direttamente, per quel gusto per il macabro d'atmosfera tipicamente inglese, fra le influenze di Harris & co. la poesia cimiteriale e il romanzo gotico.
Trovare un filo conduttore nel lavoro in questione è possibile purché si prescinda sotto questo aspetto dai testi (i quali appaiono davvero significativi solo se presi singolarmente); trattandosi, infatti, dell'antitesi di un'opera concettuale, la musica non si dipana sullo stesso asse del testo scritto, modellandosi su di esso, ma è il secondo a essere accostato alla prima per raffigurarne le movenze: ne risulta un insieme molto inquieto e antisistematico, composto da una pluralità e di episodi e di atmosfere, che tuttavia individua la propria unità proprio nella peculiarità di ciascun brano rispetto agli altri.
Il genuino impeto che caratterizza questi musicisti non è certo accostabile a quello dei Sex Pistols o dei Damned: la perizia strumentale con cui eseguono i brani fa pensare a una formazione esperta, dotata di una tecnica ben superiore alla media dei complessi hard-rock della decade precedente e che riporta alla mente il progressive, senza tuttavia la freddezza in cui quest'ultimo finiva per scadere in quegli anni. Al di là della visione semplificata e riduttiva che considera la cosiddetta "New Wave Of British Metal" come una mediazione fra la solennità del prog e le asprezze del punk (in seguito all'esaurimento - o alla trasfigurazione - di entrambi i movimenti inglesi), le Vergini di Ferro si pongono alla testa della rinascita del rock britannico con un'esuberanza e un'originalità che, se sono comuni a molte delle coeve formazioni metalliche, nel loro caso li elevano al di sopra della marea di pur ottime meteore, in una certa misura destoricizzandoli e consentendo loro di sopravvivere alla fine della scena. Proprio per questo, nonostante la carriera della band non abbia bisogno di presentazioni (dal debutto fino al concept progressivo di "Seventh Son Of A Seventh Son", passando per il power di "Piece Of Mind", l'influenza sulla prassi e sull'immaginario musicali rock è enorme), è sembrato doveroso ripercorrere ciascuna delle gemme di questo pionieristico esordio, che paradossalmente rischia di essere oscurato dai successivi splendori degli (allora) cinque londinesi.
Apre "Prowler" e subito consacra il nesso, centrale negli Iron Maiden e nel metal anni 80, inseguito/inseguitore, non senza che fra i due si instauri una complicità, una sorta di gioco delle parti al tempo predatorio e passionale; lo stesso che si instaura fra la due chitarre - quella ritmica, squadrata e di matrice hard-rock, e quella solista, forte di un virtuosismo elegante - sostenute dalla voce arrembante di Di Anno a celebrarne i duelli. Un brano che lascia attoniti tutt'oggi per la naturalezza del suo assalto. Fra tante novità non sfigura di certo un episodio di matrice più classica, "Running Free", inno alla sconsideratezza della giovinezza nonché summa di oltre un decennio di rock di strada, tanto più affascinante quanto simbolo di un mondo e di un'epoca ormai in disfacimento, gli anni 70: la band sembra aver piena coscienza di ciò e forgia un brano solo vagamente nostalgico, in realtà superbamente arrangiato, capace di sfruttare gli stilemi più consumati (entrata della batteria seguita dal basso, ritmo ascendente condito da un chorus epico e via discorrendo) per proiettare una nuova, concreta visione musicale: il capolavoro nel capolavoro è l'intermezzo centrale, una sorta di tributo al blues e al rock ‘n roll, con batteria quasi tribale (quella di Clive Burr, tra le prime ad avvalersi del doppio pedale) e un riff in stoppato.
Si tenga conto che nonostante quest'album rappresenti il definitivo accantonamento delle radici blues da parte del metal, che diventa infine autenticamente "heavy", e quindi l'affrancamento dall'hard-rock, Di Anno (si noti: non Steve Harris, compositore e mente del gruppo, ma l'urlatore, la belva da palcoscenico) nelle interviste dell'epoca ascriveva la band proprio a quest'ultimo genere: come Kevin Heybourne degli Angel Witch e Mortimer degli Holocaust (per citare due band facenti parte della NWOBHM), lui era un cantante più rock che metal, cosa che non sarà Bruce Dickinson.
"Rememeber Tomorrow" esordisce in tonalità elegiaca e sommessa (alla "Some Velvet Morning" dei Vanilla Fudge, di cui ricorda lo schema e sulla scorta della quale ripropone e ufficialmente rifonda la dialettica acustico/elettrico nella musica "dura") e subito il lamento di Di Anno si muta in un urlo, reagisce al voluttuoso e autocompiaciuto abbandono alla mestizia che questa rappresenta in musica, e dall'angusta realtà degli angiporti londinesi si libra su ariose scogliere notturne.
Chiude la prima metà del disco la prima vera epopea degli Iron Maiden (non a caso magistralmente reinterpretata da Dickinson su "Live After Death": di saghe saranno costellati tutti i dischi successivi; ebbene questa ne costituisce l'archetipo perfetto): "Phantom Of The Opera", con il sapore neoclassico e l'incedere arrembante del suo celebre riff in terzine, prevalentemente strumentale e proprio per questo forte di un testo particolarmente significativo: a dirigere l'orchestra è, nei panni di novello Erik (il protagonista del romanzo che dà il nome al pezzo), Steve Harris, il giovane emarginato che compone musica nei bassifondi, sempre diviso fra pulsioni di morte e redenzione nell'amore, istinti che si compenetrano nella sua produzione artistica.
E' nel quadro del bisogno di evasione dalla realtà quotidiana che si concretizza "Transylvania": Steve Harris, poeta e proletario, nel vagheggiare di terre lontane e di scenari orrorifici, e nel ricrearli in musica - così bene come non sarebbe riuscito componendo una poesia o dipingendo un quadro - si serve, con una spontaneità che rasenta l'inconscio, della tradizione musicale e folkloristica britannica: le chitarre paiono imitare le cornamuse, in una serrata dialettica presente-passato. E questo brano non è semplicemente terra di conquista per le scorribande del suo basso, ma rifonda su nuove basi l'intero rock strumentale, di cui rimane tutt'oggi uno degli esempi più entusiasmanti e rappresentativi: finora rimasto in larga misura appannaggio del rock progressivo, il "pezzo strumentale" diventerà una presenza frequentissima in ogni genere di disco metal. In poco più di quattro minuti, senza concedere il benché minimo spazio alla retorica e alla leziosità dei "guitar heroes" ottantiani o delle superproduzioni progressive di fine decennio: siamo di fronte a un ensemble in stato di grazia, la cui musica dal vivo doveva apparire - a differenza di quello che spesso accade - ancor più devastante e incisiva e la cui prova in studio non riflette altro che la sua spontaneità creativa.
Con "Strange World" la band pare quasi riproporre, con personalità e trasporto oltre che in un contesto musicale e culturale per certi versi opposto, il concetto di psichedelia; se "Remember Tomorrow" era di fatto un crescendo, il brano in questione non conosce brusche esplosioni, ma modula la stessa atmosfera a più registri: alcuni tra gli arpeggi più spettrali di sempre si sviluppano a struttura circolare, quindi il pezzo tocca il suo acme con un magnifico assolo in dodici ottavi di Dave Murray per poi acquietarsi, e nuovamente spiccare il volo attorno al terzo minuto, diffondendo un concentrato di emozioni sempre e comunque profondamente radicate nella realtà: l'acido lisergico appare quantomai obsoleto per un sognatore così realista e problematico come Harris.
"Charlotte The Harlot" segna un repentino ritorno all'epica di strada, all'insegna di una volgarità da trivio, ritmi sghembi e mitragliate di batteria, intervallate da un elegiaco break centrale che richiama l'atmosfera del brano precedente. La puttana picaresca protagonista della storia è di un immoralismo quasi eroico e il giovane che se ne è innamorato è combattuto fra il godimento del piacere carnale e l'altruismo del "voler bene": temi ricorrenti nella cultura e nella musica rock, ma sviluppati in maniera del tutto personale (come dimostrerà l'eccidio assaporato nel brano successivo, anche se il "fantasma" di Charlotte ritornerà su "The Number Of The Beast").
"Iron Maiden" è il colpo finale assestato con tutte le forze che rimanevano dopo poco più di trenta minuti di musica, il sangue stillato dall'eponima vergine di Norimberga con il quale la band scrive il proprio nome indelebile sui muri della storia ed enuclea il proprio pensiero. In soli tre minuti i nostri danno corpo a una furia sanguinaria (eppure così pura e cristallina) che nulla ha a che vedere con i decibel o i bpm raggiunti, ma spinge ancora più oltre le capacità mimetiche e introspettive della musica rock: i raffinati giochi musico-letterari di Steve Harris da una parte, la perversione degli istinti più bassi e crudi dall'altra creano un effetto straniante, quasi che sanità e follia si inseguissero vorticosamente per tutto il disco, sino a toccarsi in questo punto e fondersi. E così si ritorna al principio di tutto.
31/01/2008