Massimo Volume

Lungo i bordi

1995 (Wea)
post-rock

La musica dei Massimo Volume è un viaggio dentro l'inconscio. Accettarlo è un atto di coraggio. Proporlo è stata la loro grandezza.

Di stanza a Bologna per motivi di studio, Emidio Clementi (voce e basso), Egle Sommacal (uno dei migliori chitarristi italiani dell'ultimo decennio), Vittoria Burattini (batteria) e Gabriele Ceci (chitarra) registrano questo capolavoro del rock italiano in una fase molto particolare della loro vita: soldi, pochi; angoscia, imperante; sogni; pure troppi... "Mi sento come il soffitto di una chiesa bombardata", dice Emidio in "Inverno '85", mentre la musica trivella i falsi pudori. Ma è proprio attraverso la lente deformante del dolore e della perdita che i Massimo Volume hanno fatto di Bologna (della "loro" Bologna) una metafora di tutta la loro vita.

In una mattina d'agosto di sei anni fa, davanti a un caffè fumante, Egle mi confessò di come le storie narrate da Emidio non fossero sempre autobiografiche, ma, spesso e volentieri, ricalcassero esperienze di amici o di personaggi "misteriosi" della Bologna sotterranea... E' il caso, ad esempio, di Rigoni, un personaggio quasi mitico. O di Leo, grande amico dello stesso Clementi. Egle parlò anche delle loro influenze, che operano a un livello molto profondo nel loro sound: dai Joy Division al post-rock più crepuscolare; dalla no-wave al math-rock più evocativo, passando per il primo Nick Cave (soprattutto quello di "From Her To Eternity"). Egle è la vera mente musicale della band. E' la sua chitarra, infatti, a trascinarsi dietro tutta la loro musica. Chitarra ora tagliente, ora soffusa, capace tanto di esplosioni punk che di implosioni post-rock.

Un gioco continuo di forze, per l'appunto, "opposte"; di riverberi e di fratture armoniche che hanno nei versi di Emidio il miglior corrispettivo vocale possibile. Una vera e propria "drammatizzazione" del fatto musicale. Qualcosa che difficilmente coinvolge ascoltatori distratti, perché troppo legata a una concezione "catartica" e "salvifica" della musica. Perché, in fondo, è di salvezza che si tratta. La musica come una porta socchiusa in una stanza buia. La luce che filtra è un presagio di riscatto, la possibilità di una rivalsa. Qui non ci sono concessioni. Anche le band cosiddette "alternative" del circuito italiano scompaiono dinanzi a queste schegge di vita metropolitana, condotte sempre sull'orlo del baratro, perché giusto un attimo prima si abbia la forza di accorgersi della meraviglia delle piccole cose. Perché è soprattutto di questo che parlano i Massimo Volume (traslochi, sbronze, letti sfatti, affitti da pagare, viaggi al termine della notte, ecc.), ma lo fanno in un modo unico: lasciando cadere qualsiasi ipocrisia, qualsiasi imbarazzo, mentre la musica sembra riempire gli spazi vuoti lasciati cadere tra un verso e l'altro (oppure andando alla ricerca costante di un possibile corrispettivo "estetico" tra parole e musica), evocando un mondo che pullula di vita, anche se vana... anche se malinconicamente destinata a scomparire, come tracce sulla riva di un mare in tempesta.

In sostanza, quello dei Massimo Volume è un post-rock molto personale, quasi "cinematografico". La sensazione, infatti, è che ogni loro brano sia la colonna sonora di un film immaginario, la cui sceneggiatura, già tutta nei testi di Emidio, viene ulteriormente caricata di simboli e di emozioni da un impasto sonoro tanto inquietante quanto sensuale, ma anche capace di improvvise slabbrature nevrotiche. Le timbriche degli strumenti sono certamente l'elemento cardine (come da manuale post-rock), ma i nostri sono anche interessati al raggiungimento di un particolare equilibrio tra le varie sorgenti sonore. Quello che conta, in fondo, è l'atmosfera. La "scenografia musicale".

Quando si accinsero a entrare in studio, Egle & co. avevano già all'attivo un album sulla lunga distanza, "Stanze" (1993), che, pur lasciando presagire sviluppi davvero interessanti, pagava troppo in termini di ingenuità (evidente soprattutto nella resa imperfetta delle strutture musicali e nei testi ancora troppo legati a una verbosità figlia di una urgenza comunicativa bruciante, irrefrenabile). Il perfezionamento (sia musicale che linguistico) avviene nei successivi due anni. Egle si avvicina ancora con più convinzione alla scena post-rock, cercando di trovare un suo personale punto di vista, che, tra l'altro, tenesse presente anche la fondamentale lezione dei maestri tedeschi (tutta la linea che congiunge il kraut rock alla scena berlinese di inizio anni 80, con pesanti riferimenti soprattutto alla dissoluzione formale "psichica" degli Einsturzende Neubauten, senza dimenticare quella degli inglesi Throbbing Gristle. Emidio, nel frattempo, cercava una maggiore purezza del dettato poetico. I capisaldi di questa sua "introspezione" letteraria sono senza dubbio i "maudits" francesi di fine Ottocento, anche se non va sottovalutata l'importanza di cantautori americani come Jim Carrol e di artisti francesi come Leo Ferré, capaci di rendere con eccezionale vivacità l'inquietudine che avvolge la "normale" vita quotidiana. In questi due anni, insomma, i Massimo Volume portarono a definitivo compimento il loro straordinario post-rock d'autore. "Lungo I Bordi" è la testimonianza più alta di questo cammino artistico.

Gli accordi reiterati della chitarra, il cupo rimbombo del basso (quasi una versione soffusa dell'"heavy drone", la tecnica inventata dai Godflesh), la batteria sorniona (Slint), la voce recitante che riecheggia la vita bastarda di artisti maledetti: questo è "Il Primo Dio", dedicata al poeta bolognese Emanuel Carnevali (1897-1942), uno dei tanti Rimbaud nostrani morti inseguendo il sogno di poter un giorno dire, delle vocali, "le nascite latenti"... ("Emanuel/ Primo dio/ Rimbaud/ preghiera/ a cose più belle di me"). La voce di Emidio è finalmente sicura di sé: viva; tormentata.

In "Il Tempo Scorre Lungo I Bordi", una nube tossica aleggia su di un'atmosfera cupissima, simbolo della vanità del tutto. Anche una digressione esplosiva non riesce a imporre facili speranze, perché, prima o poi, "comincia la polvere". Si diceva, più sopra, di "Inverno '85". Si diceva del sentirsi in un certo modo. Tutto e niente. Un ritmo marziale, una danza assassina, uno scenario accecante, fatto di età svanite e mai dimenticate. Uno dei brani più "sinceri" di tutta la musica italiana. Come trattenersi dallo spaccare tutto, nonostante una lenta, costante implosione del suono. Poi, un frammento di lirismo bruciante, improvviso, lasciato al suo destino in mezzo a un vortice minimale di chitarre, la cui necessità è messa in dubbio dal rumorismo della sua malvagia compagna ("Frammento 1").

Lo psicodramma di "La Notte Dell'11 Ottobre", scandito da un drone sinistro di chitarra, racconta di una metropoli in disfacimento, perché in disfacimento sono anche le nostre notti, tra incubi e ricordi che fanno male. Abbandonato al suo destino, il brano si consuma lentamente, tra il tintinnare dei piatti e le cupe risonanze del basso, in un clima paradossale, da tragedia espressionista. L'incedere nervoso di "Fuoco Fatuo" sembra una versione scarnificata della "danza moderna" dei Pere Ubu. La voce è sommersa dal ronzio abrasivo delle chitarre e dalle paurose stecche del basso ("Leo, è questo che siamo?" Cosa, in fondo?...).

L'intro di "Per Farcela" è jazzato, ma possente, sfrangiato dal solito chitarrismo spastico e, al contempo, lirico di Egle. La tensione si accumula fino a dare vita a una bolgia impenetrabile. Su tutti, impera la saggezza tecnica e la straordinaria sensibilità percussiva della Burattini. Prendete, poi, "Meglio Di Uno Specchio": capolavoro di rabbia e poesia, con pochi eguali nella storia del rock tricolore. Un'unica, abominevole traccia di chitarra, intarsiata di micro-variazioni che scandiscono le ascese emotive e le disfatte di un amore da quattro soldi. In disparte, la batteria sembra ansimare, dietro quel proiettile impazzito fatto di corde e di plettrate incandescenti. Poi, ad 1'55", la violenza si fa palpabile, con la Burattini che scandisce la disfatta con delle mazzate pazzesche, prima che il suono re-imploda nuovamente su se stesso, tornando a rovistare le scorciatoie dell'anima. L'alienazione è viva e tormentata in "Pizza Express", come sudore gelido sulla pelle. E' un racconto di ordinaria quotidianità, tutto costruito su armonici di chitarra, scorci jazzati di batteria e improvvise accelerazioni. La sintonia tra racconto (perché, se non si fosse ancora capito, Emidio non canta, recita; al massimo declama) e scenografia musicale è qui ancora più evidente. Ogni nota, ogni suono ha il compito di sottolineare le variazioni di tensione emotiva del racconto, capaci di delimitare i confini di impalpabili paesaggi immaginari.

Dopo il brevissimo frammento lirico di "Da Qui", ecco gli accordi "sintetici" e le epilessie soniche di "Nessun Ricordo" (in un clima da collasso nervoso), prima che "Ravenna" chiuda malinconicamente il sipario. "Ravenna", certo. Un incedere sonnolento, una chitarra quasi folk, quell'attimo di placida calma, fatto di orizzonti lontani, lontanissimi. E, poi, quei nastri lasciati andare all'incontrario, tra voci indistinte che raccontano altri frammenti di altre vite disperate. "C'abbiamo provato/ e abbiamo creduto di farcela/ e abbiamo camminato/ incontro a tramonti / muti/ che si ha pudore di guardare/ e abbiamo dimenticato i/ nostri corpi/ inadeguati/ Sperduti abbiamo riso".

02/11/2006

Tracklist

  1. Il primo dio
  2. Il tempo scorre lungo i bordi
  3. Inverno '85
  4. Frammento 1
  5. La notte dell'11 ottobre
  6. Fuoco fatuo
  7. Per farcela
  8. Meglio di uno specchio
  9. Pizza express
  10. Da qui
  11. Nessun ricordo
  12. Ravenna