I Sisters Of Mercy di Andrew Eldritch funsero da autentico "punto di non ritorno" della dark-wave britannica, specie nell'arco di tempo racchiuso tra il 1983 (anno della sublime sfilata di singoli che culminò nella leggendaria "Temple Of Love") e il 1987, anno dell'album "Floodland". Da questo momento in poi, la loro parabola andrà in inarrestabile discesa, con l'eccezione di un'ultima impennata d'orgoglio nel 1992, anno in cui la riedizione di "Temple Of Love" diede un po' di nuova linfa al gruppo, proiettandolo anche ai vertici delle chart. Nel bel mezzo del loro periodo d'oro arrivò soprattutto il primo full-length, "First And Last And Always", ovvero il "manifesto" delle intenzioni di Eldritch, all'epoca non ancora assoluto padre-padrone del gruppo, come sarà subito dopo. La formazione anzi si era stabilizzata - seppur a fatica - in un quartetto di irripetibile qualità: accanto a Eldritch c'erano i due chitarristi Wayne Hussey e Gary Marx (autori di gran parte delle musiche) e il bassista Craig Adams. Formazione inevitabilmente soggiogata però dal carisma messianico di Eldritch, e che infatti si sarebbe dissolta appena dopo la release dell'album, con Hussey e Adams che andarono a fondare gli ottimi Mission.
Pochi anni bastarono, però, alla band per coniare uno stile assolutamente unico e inimitabile, che nasceva in realtà dall'estremizzazione di tutti gli stereotipi del genere: le loro atmosfere erano forse le più lugubri e malate dell'intero movimento, grazie soprattutto al canto catacombale di Eldritch - che prendeva comunque molto da quello di Ian Curtis - e al suo sterminato repertorio di litanie perverse e infernali; gli strimpelli delle chitarre, il rombo costante del basso, i soffi spettrali delle tastiere, per contrasto esibivano un sound quasi "levigato", di straordinaria pulizia, che fungeva da perfetto "altare sacrificale" sul quale Eldritch potesse intonare le sue messe nere.
Ma soprattutto i Sisters Of Mercy accentuarono come nessun altro la ballabilità: le loro canzoni erano inquietanti come poche altre, ma quasi non si faceva caso al loro alone occulto grazie a un continuo alternarsi di ritmi possenti e trascinanti. Il loro uso della drum-machine resterà la cifra più inconfondibile del loro sound: anzi, venne addirittura coniato un termine tecnico specifico, la drum-machine "Avalanche" (valanga), per definire il ritmo sintetico "alla Sisters Of Mercy".
"First and Last and Always", in quanto prima prova sulla lunga distanza, è un campionario di tutta la loro estetica. E soprattutto contiene quello che è il capolavoro assoluto dell'intera produzione dei Sisters Of Mercy, nonché di certo uno dei massimi capolavori del rock "oscuro", per non dire del rock tutto: la straordinaria "Marian", il loro cerimoniale esoterico più tetro e malato, un rituale di eterna perdizione recitato da Eldritch in un registro talmente basso e profondo da farsi quasi un rombo indistinto, il tutto sposato a una delle loro cadenze più irresistibili, un ritmo travolgente che la "Avalanche" esplode implacabile per tutti i sei minuti del brano, mentre Hussey e Marx dipingono sullo sfondo formidabili intrecci di arpeggi chitarristici e folate di tastiere, e il basso di Adams pulsa catatonico. "Marian" è il classico brano che da solo vale un'intera opera, è la "danse macabre" per eccellenza della musica dark: un gorgo infernale che mentre trascina inesorabilmente verso la tenebra, lascia intravedere ancora un ultimo spiraglio di luce e di salvezza: e grazie alla martellante cadenza della "Avalanche", diventa anche uno sfibrante, estenuante rito di auto-purificazione, un incubo vertiginoso al quale è impossibile resistere. Posto non a caso a metà esatta dell'album, "Marian" è il culmine verso cui si muove questo immane calvario condotto a ritmo di discoteca, anziché di processione, che è "First and Last and Always".
"Black Planet", posta in apertura, è depressa, funerea (con tanto di cori liturgici) e ipnotica come nella migliore tradizione del dark-punk, ma la successiva "Walk Away" aumenta subito la frequenza dei battiti della "Avalanche" lanciandosi in una danza sfrenata e paranoica, memore - anche troppo forse - dei migliori Cure. "A Rock And A Hard Place", è una versione tecnologica e futurista dei lancinanti tormenti esistenziali dei Joy Division. Posta subito dopo il tour de force di "Marian", la title-track sembra quasi voler tirare il fiato per un attimo, anche se i battiti elettronici si fanno via via sempre più pesanti e opprimenti.
"Possession" è invece il brano che più di tutti viene immerso nelle atmosfere ossianiche di un tetro rituale del male: lenta, avvolgente, segna l'inizio del pozzo senza fondo che è l'ultima parte del disco. Il primo "girone" è "Nine While Nine", che come "Marian" si lancia in una galoppata frenetica, ma stavolta tutta la struttura del brano è come frenata dalla sua stessa angoscia primaria: non c'è liberazione, c'è solo una tensione soffocante. "Logic" comincia anche a perdere la stabilità e l'ordine geometrico che finora hanno caratterizzato le canzoni: il vocione di Eldritch si fa invocazione disperata, un grido d'aiuto lanciato nel deserto, mentre intorno a lui i ritmi, le tastiere, le chitarre, tutto impazzisce e si sfalda in mille pezzi.
Il percorso tormentato del nero messia incarnato da Eldritch giunge così al capolinea con l'altro capolavoro del disco, la lunga "Some Kind Of Stranger", melodramma degno dei migliori episodi di "Closer" (Joy Division), ovvero degno di figurare negli annali della musica che fa della disperazione più straziante la sua ragione di essere. Il battito incalzante della drum-machine si placa finalmente (nelle frequenze, non certo nel timbro, sempre devastante) e anziché mettere in scena incalzanti e sfrenati rituali di liberazione degli istinti più turpi, offre stavolta alla nostra contemplazione una marcia di dannati condotti verso i lidi infernali. L'apoteosi non potrebbe essere più efficace, con le splendide figure disegnate dalla chitarra di Wayne Hussey, gli squarci tragici delle tastiere e soprattutto il canto di Eldritch, che dietro il tono solenne e pomposo trasuda lacrime di autentico dolore come soltanto il miglior Nick Cave sa fare.
Proseguendo il discorso praticamente da solo negli album successivi, Eldritch cesellerà altre danze memorabili (basti ascoltare pezzi come "Dominion" e "Lucretia My Reflection" dal successivo album "Floodland"), ma la magia del quartetto composto con Adams, Marx e Hussey, non tornerà più: è con questa formazione che i Sisters Of Mercy si sono imposti come la band che ha saputo trascendere il suo genere, diventanto l'esperienza più "totale" del dark-rock anni Ottanta. Le tensioni, le paure, le depressioni, le ansie nelle quali si sprofondava insieme a Ian Curtis e compagnia, trovarono finalmente con i Sisters Of Mercy una valvola di sfogo, che era la danza sfrenata. Lasciarsi trasportare dalle loro incalzanti odissee elettro-rock, dal loro impeto ritualistico e viscerale, farsi avvolgere dalla voce di Eldritch, e non avere paura di affondare con lui in vortici di cupa perversione, sempre a perdifiato, ballando, senza potersi fermare: i Sisters Of Mercy sono una sensazione "fisica", prima ancora che musicale. Ascoltare un album irripetibile come "First And Last and Always" per credere.
09/11/2006