Girls In Hawaii

Girls In Hawaii

Malinconicamente indie-pop

Una carriera partita con il memorabile "From Here To There" e messa a dura prova dalla tragica scomparsa del batterista Denis Wielemans. Ma la più europea fra le rock band belghe del nuovo millennio seppe rialzarsi e trasformare in opportunità la propria vena malinconica, concentrata in un pugno di "perfect song" adorate dal popolo indie

di Claudio Lancia

I racconti metropolitani narrano che tutto iniziò da un gruppo di scout, nel quale Antoine Wielemans e Lionel Vancauwenberghe fungevano da animatori. Siamo in Belgio, fine anni 90, i ragazzi strimpellano la chitarra, ed in mezzo ai classici delle gite fuori porta ben presto inseriscono qualche canzone scritta di proprio pugno, dallo scanzonato piglio pop. I due coinvolgono i rispettivi fratelli, Denis Wielemans e Brice Vancauwenberghe, e cammin facendo un altro paio di amici: Christophe Léonard e Daniel Offermann. Un corposo  nucleo che si rende conto di aver delle cose da dire, e nel 2000 le prime idee vengono fissate in un registratore a otto tracce. Il risultato sono melodie cristalline fortemente influenzate della scena indie contemporanea o di poco precedente, in particolare dai Grandaddy, che saranno un termine di paragone spesso accostato alla band da molti addetti ai lavori.

Mentre alcuni di loro studiano Comunicazione a Bruxelles, i Girls In Hawaii (questa la singolare ragione sociale prescelta) iniziano a fare esperienza live intorno alla zona di residenza, fin quando un demo viene recensito dalla stampa locale e dal magazine musicale francese Magic, riuscendo persino ad aggiudicarsi un contest per band emergenti che richiama curiosità ed attenzioni sul gruppo. Nel 2003 è il momento della prima incisione ufficiale, l’Ep Found In The Ground - The Winter, un lavoro interlocutorio ed ancora discontinuo composto da cinque tracce (fra le quali una scatenata “Bees & Butterflies” che sarà poi riproposta in versione molto più slow nel successivo primo album) e diffuso dalla label indipendente 62TV che in scuderia annovera formazioni molto note, quali i connazionali Venus. Difficile capire se i dEUS, i belgi musicalmente più famosi, possano essere stati dei punti di riferimento: di sicuro questa nidiata di artisti furono la prova di quanto il piccolo Belgio potesse essere in grado di partorire realtà di indiscutibile valore, una trasfusione di coraggio per tutti i giovani musicisti locali, spesso relegati ai confini dell’impero. A seguito dell’hype provocato dal primo Ep, i Girls In Hawaii si imbarcarono in un primo tour che avrebbe toccato Belgio e Francia. I tempi erano oramai maturi per concepire il primo vero album.

A novembre 2003 (ma una certa diffusione europea avverrà soltanto durante l’anno successivo) viene pubblicato From Here To There, sulla quale copertina viene posto un rassicurante paesaggio, al di sotto di nubi che non sappiamo bene se essere tendenti al minaccioso oppure il residuo di una tempesta passata. L’impatto è clamoroso: in dodici tracce la band disegna la propria estetica indie-pop, fatta di canzoni gradevolissime e melodicamente perfette, dove voci e chitarre (spesso acustiche) si intrecciano in maniera superba, la sezione ritmica sorregge l’impalcatura e l’elettronica partecipa conferendo azzeccate speziature. E’ cosa tutt’altro che comune incontrare un esordio con una simile qualità compositiva, in grado di accostare spunti provenienti dalla migliore tradizione inglese degli ultimi anni, riuniti nel fitto alveare della pop music. Come se non bastasse, i ragazzi dimostrano una buona perizia tecnica, pennellando ottimi passaggi strumentali, e soprattutto sanno quando chiudere una canzone, evitando di lanciarsi in inutili lungaggini, puntando tutto su quel tipo di sintesi che lascia il desiderio di riascoltare subito tutto da capo. Il buongiorno è sancito dal piacevole cinguettio che apre l’iniziale “9.00 a.m.”, canzone semplice e al contempo obliqua, perfetta da ascoltare all'orario del titolo. Ma l'intero l’album è un susseguirsi di perfect pop songs che si stampano in testa: “Time To Forgive The Winter” è un dolce uragano figlio dei Blur più elettricamente intensi, con dentro tutto il belligerante sapore alt-rock degli ancora vicini anni 90, “Found In The Ground” è un miracolo di rotondità pop, “The Ship On The Sea” l’autorevole intermezzo strumentale che divide idealmente l’album in due, la successiva “The Fog” rappresenta l’aspirazione di replicare i disegni apatici del Thom Yorke di “Amnesiac”. Poi ci sono le struggenti ballad (fra le quali “Short Song For A Short Mind”, “Casper” e “Organeum” risultano le più riuscite), che conferiscono quel mood un po’ autunnale al lavoro. E quando tutto pare già scorrere che è una meraviglia, giunge alla traccia n° 9 il momento più sorprendente, quello che contribuisce ad elevare ulteriormente il peso specifico dell’album, ancora oggi utilizzato per chiudere in maniera sonica i live set della band: la deflagrante “Flavor”. E’ il brano che spazza via tutti i dubbi (qualora ancora ce ne fossero) sulla straordinaria bontà di questo lavoro.

Dare un seguito alla perfezione di From Here To There non sarebbe cosa facile per nessuno, e in effetti ci vollero ben cinque anni (mai stati iperprolifici i ragazzi) per partorire il successore. Ma nel 2008 Plan Your Escape non delude le attese, pur posizionandosi su livelli qualitativamente inferiori rispetto all’osannato esordio. Plan Your Escape è un album più meditativo, dove il sestetto si conferma maestro nel miscelare umori, passando con sicurezza e proprietà di mezzi dalle ballate introspettive a pezzi decisamente più canticchiabili. Gli scenari questa volta sono autunno-invernali sin dal packaging, ma nonostante tale caratterizzazione la band sorprende, soprattutto quando preme sull’acceleratore puntando su motivi briosi, cosa che accade in corrispondenza dell’iniziale “This Farm Will End Up In Fire”, nella successiva “Sun Of The Sons” (quella che cita i Beatles inneggiando “Here Comes The Sun”), ma soprattutto nella anthemica ed energetica “Bored”, arricchita da una bella coda strumentale. Sono le prime tre tracce del disco, che successivamente scivola su modalità molto più trattenute, a partire dallo strumentale “5.20.22”, il quale funge da introduzione alla ballata acustica “Shades Of Time”. Nel resto del menù spiccano gli slanci Radiohead style di “Colors”, le attitudini radiofoniche di “Birthday Call” e “Summer Storm”, le sane schitarrate di un altro strumentale, “Road To Luna”.

Le esibizioni live mostrano una band dall’impatto devastante, convincente quando lavora di fino, ma che se decide di prodigarsi in esplosioni elettriche sa farlo senza pietà, mettendo all’occorrenza in campo anche quattro chitarre, con tutti i crismi della grande rock band.
Nel 2010, proprio quando i Girls In Hawaii sembrano destinati ad un futuro di grandi successi, avviene però un evento drammatico che mina seriamente il destino del gruppo: il batterista Denis Wielemans rimane vittima di un incidente stradale mortale. La band si trova spiazzata, ed il fratello Antoine (assurto a figura cardine della formazione) decide di affrontare la perdita rifugiandosi nella zona delle Ardenne, lontano dai clamori e dai frastuoni della città. E’ in questa situazione di sconforto e disillusione che prendono luce le prime bozze del materiale che consentirà ai Girls In Hawaii di avere un futuro.

A settembre 2013 esce Everest, un lavoro profondamente malinconico, influenzato dalla scomparsa di Denis, rimpiazzato prima da Andy Reindard, poi da Boris Gronemberger. Nel frattempo Christophe Léonard ha abbandonato la partita, sostituito da Francois Gustin. La montagna più alta del mondo diviene la perfetta metafora delle difficoltà e degli ostacoli che si possono incontrare tanto nelle vicissitudini di una band quanto nella vita comune di tutti i giorni. Everest si pone in maniera cupa sin dalle prime note dell’iniziale “The Spring”, e una sensazione di profonda commozione permane per gran parte della tracklist, dalle meravigliose “Misses” e “Changes” alle minori (ma sempre toccanti) “Here I Belong” e “Head On”, sino alla conclusiva “Wars”. Gli slanci più briosi risultano meno frequenti rispetto al passato, ma quando avvengono si stagliano in maniera ancor più netta. E’ il caso di “Not Dead”, di “Rorscharch” e soprattutto di “We Are The Living” e “Switzerland” (con dei synth mozzafiato nella parte finale), i momenti ritmicamente più coinvolgenti del disco. “Mallory’s Height” (costruita su un’atmosfera a metà strada fra i Radiohead e i Portishead di “The Rip”) consente di approfondire la singolare storia dello scalatore George Mallory, scomparso nel 1924 durante una spedizione che mirava alla conquista della vetta dell’Everest: il corpo fu ritrovato soltanto nel 1999, a pochi metri dalla cima.
Anche quando puntano su toni più sommessi del solito, giocandosi tutto sul climax emozionale, Antoine Wielemans, Lionel Vancauwenberghe e soci restano un gran bel sentire, in un album che si muove alla costante ricerca della luce fra le nevi perenni e il freddo intenso della montagna più alta del mondo.

Il tour promozionale di Everest tocca anche l'Italia, a Padova e Roma, ed è la testimonianza di come, nonostante gli anni trascorsi, il pubblico non si sia dimenticato di loro.
A suggellare il tour arriva nel 2014 anche un documento dal vivo, Hello Strange, registrato durante le date in Belgio. Alcuni vecchi brani proposti vengono rivisitati in chiave acustica, altri invece vengono fatti oggetto di un make-up più elettronico. 
Nel 2015 la band riceve l'importante premio "Les octave de la musique" assegnato ogni anno ai migliori musicisti belgi francofoni che si sono distinti per i risultati ottenuti all'estero.

Il capitolo successivo della discografia dei Girls In Hawaii, Nocturne, viene pubblicato alla fine di settembre 2017. Corde acustiche e pianoforte danno il via all'iniziale “This Light”, in maniera dolce e vagamente ipnotica, poi entrano gli archi, e via via tutto il resto, una luce fioca che fende il buio, con Antoine e Lionel che puntano tutto su garbo e malinconia (“Guinea Pig”, “Willow Grove”, “Up On The Hill”), ingredienti non certo nuovi per loro, ma gestiti integrando un senso di serenità generale, conseguenza di una sempre maggior padronanza dei propri mezzi sposata all’età adulta, che porta inevitabilmente ad essere più meditativi, meno irruenti, e soprattutto padri di famiglia.
Il prodigio della nascita ammorbidisce il senso della perdita dei propri cari, e l’emblematico titolo scelto per il quarto disco della formazione belga non lascia certo presagire sfuriate elettriche, bensì il desiderio di raccontare nuove sensazioni racchiuse in piccoli bozzetti non sempre convenzionali. C’è lo spauracchio dei Radiohead che avvolge sia la sublime “Cyclo” che le spire musicali nelle strofe di “Overrated”, mentre le derive electro studiate per “Indifference” e “Walk” (anche queste non rappresentano una novità) giungono in tempo per dare movimento alla sequenza dei brani, scuotendo la scaletta da un torpore che avrebbe rischiato di condurre il lavoro verso binari troppo umbratili. Ogni traccia esalta il gusto per la componente emozionale, e quasi sempre mostra delle interessanti discontinuità, come nel caso di “Blue Shape” e “Monkey” che partono molto lente per poi salire ritmicamente verso il finale.

I Girls In Hawaii non deludono mai: centellinando le pubblicazioni – pur fra mille difficoltà - continuano a diffondere la propria musica sottilmente fragile, nella quale acustico, elettrico e sintetico trovano un’unione di rara bellezza ed efficacia

Girls In Hawaii

Discografia

Found In The Ground: The Winter Ep (Ep, 2003)

6

From Here To There (Naive, 2003)

8

Plan Your Escape(2008)

7

Not Here (Dvd,2009)

6,5

Everest(Naive, 2013)6,5
Hello Strange (live, 2014)6,5
Nocturne (Pias, 2017)6,5
Pietra miliare
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