Quando si parla di Miles Davis i dischi da considerare come “capolavori” sono indubbiamente parecchi.
Uno dei suoi periodi migliori è certamente l’era del quintetto con Herbie Hancock al piano, Ron Carter al contrabbasso, Wayne Shorter al sax tenore e Tony Williams alla batteria: è questo quintetto a dare vita in una manciata di anni a una serie impressionante di grandi dischi, tra i quali “Sorcerer”.
E’ curioso che molta parte della bellezza di uno dei dischi migliori di Miles sia da attribuire non tanto a lui quanto ai suoi partner. Scorrendo i credits, infatti, si scopre che su sette composizioni il leader non ne ha scritta nemmeno una: quattro sono di Shorter, una di Hancock, una di Williams e una del cantante Bob Dorough (uno sciagurato pezzo di due minuti posto in chiusura, del tutto scollegato col resto dell’album e in ultima analisi scialbo e inutile).
Analizzando le strutture e le armonie dei brani, parrebbe quasi di ascoltare un disco solista di Shorter: elusione delle forme tonali classiche, profonda comprensione della logica modale, temi angolari, misteriosi e cerebrali. Ma non è un disco di Shorter, e l’ascolto fa subito capire il motivo per cui il disco è a nome di Davis: il mood. Ogni esecuzione (tranne la bellissima ballad “Pee Wee” a firma Williams, in cui il trombettista stranamente non suona) è direzionata dal tono cupo dei suoi assoli: il suono della tromba in Sorcerer è pregno di lirismo e mistero, con un forte uso dei silenzi.
Ogni musicista stupisce in questo disco.
Hancock si mostra uno straordinario pianista con la sua presenza minimale e in grado di conferire una grande varietà di colori (non si limita mai a accompagnare battuta per battuta, anzi fa passare spesso lunghe pause e i suoi assoli ermetici e atmosferici sono quasi tutti privi del “comping” degli accordi con la mano sinistra).
Ron Carter e Tony Williams costituiscono con Hancock una delle sezioni ritmiche più celebrate della storia del jazz, e a buona ragione: la loro maestria nelle dinamiche è molto più che semplice accompagnamento. Pur essendo le strutture dei brani “a chorus” (cioè come un ritornello che si ripete, l’esempio classico di ritornello sono gli accordi del tema), in Williams non si sentirà mai uno swing uniforme chorus dopo chorus ma bensì il piatto “ride” leggero e danzante, diversi silenzi, improvvise rullate impetuose e devastanti (eguagliate davvero da pochi, sentire il suo apporto su “Prince of darkness”), parentesi free e atmosferiche.
Shorter dal canto suo, oltre a metterci il genio compositivo, si pone in grande evidenza per il suo approccio solistico melanconico e meditabondo: poche note, tono notturno, lirismo cerebrale.
I sei pezzi sono tutti bellissimi, ma il mio personale favorito è certamente “Masqualero”. Una delle più belle composizioni di Shorter in assoluto con la sua struttura modale (c’è un unico accordo, da cui si devia solo nelle ultime battute di ogni chorus per risolvere il tema) e la sua melodia ellittica e minimale dei fiati, deve la sua magia anche al grande interplay tra Hancock (qui davvero da applausi) e Davis nel solo da thriller ad alta tensione del trombettista.
E’ davvero difficile tentare di trasmettere a parole le decine di momenti che rendono magnifico “Sorcerer”: basti sapere che la presenza della splendida “Prince of darkness” ha valso a Davis l’omonimo soprannome. Ecco, a mio avviso non c’è disco migliore per rendersi conto della veridicità di questa affermazione.
24/12/2019