Il glitch iniziale di "2+2="5"" non deve ingannare: dopo due album ambigui, discussi, che setacciavano in maniera disomogenea e affascinante la musica pop della nostra epoca, i Radiohead vanno avanti facendo tre passi indietro; infatti questo "Hail To The Thief" ricorda sicuramente di più le atmosfere di "Ok Computer", e se l'elettronica non viene messa in soffitta, nella maggior parte dei brani primeggiano gli strumenti del rock tradizionale, oltre alla voce, qui davvero in grande forma, di Thom Yorke. Quest'ultimo si produce in alcune delle sue migliori interpretazioni, e se il disco ha una qualità nel possedere un'essenza onirica, sospesa e liquida, è grazie alla sua voce, che dà la sensazione di situarsi in un livello superiore rispetto alla musica, imprescindibile faro e guida spirituale. E, a ben guardare, i brani più deboli del disco sono proprio quelli che sembrano voler mantenere un legame estetico con il passato più recente, pezzi come "The Gloaming" e "Backdrifts", ad esempio, che non reggono il confronto con l'ibrida elettronica che ha caratterizzato alcune tra le migliori opere degli ultimi due dischi.
Seduce invece la triade di apertura "2+2="5"", "Sit Down, Stand Up", e la liquida e rarefatta "Sail To The Moon": scatti nevrastenici, sfoghi frustrati e negati, amarezza tagliente nei testi, e un'infinita malinconia annegata nell'equilibrata grazia degli arpeggi delle chitarre e della voce di Yorke, sempre più leader della band. Una capacità di alternare tensioni differenti che si rivelerà preziosa: spiccano infatti i climax emotivi del singolo "There There", di "A Wolf At The Door", che con il suo malinconico carillon sembra uscita direttamente da "Ok Computer", o i dolorosi gospel di "We Suck Young Blood" e "I Will", e ancora quando si permettono anche il gioco di realizzare una copia degli U2 anni 90 migliore dell'originale, con il rock dal sapore futurista di "Where I End And You Begin".
Come interpretare questo "Hail To The Thief"? Sicuramente molti grideranno al tradimento, o denunceranno la truffa dei Radiohead, finti innovatori, artefatti mistificatori. Probabilmente questo è da mettere in conto: i Radiohead sono stati degni rappresentanti della musica di questi anni, sfuggenti, ambigui, artificiosi calcolatori, ma anche disperata espressione di malumori e nevrosi reali. E altrettanto probabilmente è giunto il momento di passare il testimone, di varcare quella soglia che porta gli artisti dalla nervosa e produttiva ansia di sentirsi a cavallo dell'onda del proprio tempo, alla piena consapevolezza dei propri desideri e del proprio passato. I Radiohead realizzano questo con un album sincero, che ci fa perdonare anche qualche caduta di ispirazione, e ci permette di godere appieno dei lampi di talento espressivo di cui sono ancora capaci.
29/10/2006