Se agli Smashing Pumpkins di Billy Corgan si può rimproverare davvero qualcosa, questa è forse la poco saggia gestione di sé stessi che il gruppo di Chicago ha attuato dopo aver raggiunto il grande successo; un successo che i Pumpkins avevano ampiamente meritato con un disco di grande livello come "Siamese Dream", secondo della loro carriera dopo l'interessante esordio "Gish", ma che in seguito hanno progressivamente buttato via, decidendo di bruciare forse troppo in fretta le proprie carte. Il colossale "Mellon Collie", pur contenendo diversi episodi memorabili, rappresentava forse il proverbiale passo più lungo della gamba; il successivo "Adore", alla luce dei molti travagli all'interno del gruppo e nella vita privata di Corgan, ripiegava invece su un formato molto più umile e sofferto, ed era forse il loro album più sincero, ma anche quello meno compreso e apprezzato; fino al triste epilogo di "Machina", nel 2000, che tra incomprensioni, dissidi e furibondi litigi pose la parola fine alla loro avventura.
Ora a distanza di tre anni Billy ci riprova, con un progetto che, a giudicare dai nomi scelti per accompagnarlo, faceva sperare grandi cose: alla batteria il fedele e validissimo Jimmy Chamberlin, al basso Paz Lenchantin degli A Perfect Circle, e due chitarristi d'eccezione come Matt Sweeney e soprattutto il leggendario David Pajo, uno degli eroi della scena post-rock, già membro fondatore dei seminali Slint e poi collaboratore di innumerevoli band del settore, dai Tortoise ai Mogwai.
Ma in questo "Mary Star of the Sea" tutto questo talento si sente a malapena: e come al solito, il senso di attesa spasmodica creato dall'enorme campagna di lancio del progetto, partita più di un anno fa a colpi di annunci stampa che enfatizzavano i grandi nomi coinvolti e la ritrovata vena creativa di Corgan, si è dissolta nella delusione di un disco che di rivoluzionario, di nuovo, o quantomeno di interessante, ha davvero poco.
Le canzoni sono orecchiabili, in certi casi anche buone (è il caso di "Lyric" e soprattutto "Settle Down"), ma non lasciano trapelare mai il minimo segno di originalità e personalità che ci si aspetterebbe da musicisti di questo calibro.
Dal canto suo Corgan, che a dire il vero molto originale non è mai stato ma che perlomeno aveva sempre espresso un ottimo talento di songwriter, sembra essere molto più sereno e pacificato rispetto a come lo ricordavamo con i Pumpkins, evidentemente entusiasta di aver intrapreso questa nuova avventura: lo si sente tanto dal singolo "Honestly", quanto da "inni all'amore universale" come "Declaration of Faith" o da una ballata come "Desire", brani tanto orecchiabili e gradevoli quanto privi di mordente e di qualunque motivo di interesse che non vada al di là di un semplice ascolto senza troppe pretese.
Peccato che il Billy Corgan nella sua nuova veste di compassato songwriter ricada spesso e volentieri negli stessi peccati di megalomania ed egocentrismo che avevano in qualche modo tarpato le ali all'ascesa dei Pumpkins, aspetto questo accentuato dall'irrimediabile mancanza delle laceranti scariche abrasive della chitarra di James Iha, in particolare quando Corgan prova a riproporre quelle lunghe e tumultuose cavalcate in puro stile SP, come la sterminata "Jesus" (14').
In sostanza, nel suo esordio con gli Zwan, Corgan dimostra di non essere riuscito a trovare il giusto compromesso tra un passato importante e ingombrante come quello dei Pumpkins e un presente fatto di musicisti che meriterebbero decisamente più spazio e libertà di azione (soprattutto la presenza di David Pajo appare davvero sprecata) e più di ogni altra cosa meriterebbero di poter suonare qualcosa che fosse perlomeno stimolante; "Mary Star of the Sea" non lo è mai. Peccato.
30/10/2006