Per questo, dopo alcuni anno nei quali l'ho ignorato (colpevolmente?), mi sono riavvicinato e ho comprato questa sua ultima produzione. Rimanendone colpito.
Formazione ai minimi termini con PH alla voce, tastiere e chitarra e due vecchi amici come Stuart Gordon al violino e David Jackson al sax e flauto. Una suite, si diceva, divisa in 14 parti. Il line up ristretto non faccia pensare a digressioni minimaliste, il disco gode infatti di un impatto sonoro pieno e vigoroso con tutti gli elementi tipici della poetica di Hammill, supportati da una ritrovata carica creativa e inventiva. Tipico l'alternarsi di stasi liriche, supportate dal pianoforte, di malinconica inquietudine, piene di dolcezza e di mal di vivere, alternate a sfuriate rabbiose e nevrotiche; tipica la vocalità di Hammill, epicentro come sempre dell'intero lavoro, tra spigolose esplosioni tenorili e soffusioni colme di tristezza. Preziosissimo, poi l'apporto di sax, flauto e violino nel dilatare uno spazio musicale altrimenti un po’ angusto. Non mancano alcune parti discutibili in cui la musica stenta a decollare, ma non intaccano un disco luccicante, di indubbia ricchezza espressiva e musicale, che unisce l'urgenza e la secchezza di certa new wave esistenziale, la ricercatezza del progressive e l'intensità di un Tim Buckley.
Non un capolavoro, ma un piccolo gioiello di sensibilità emozionale in tempi di grande aridità. Il più bel disco di Peter Hammill dai tempi di "Enter K" del 1982. Un autore ritrovato. Ma forse eravamo noi a esserci persi.
(15/12/2006)