Peter
Hammill ha una discografia enorme e viaggia tutt'ora alla media di quasi un
disco all'anno ed è titolare, da solista, di alcuni dischi splendidi e di altri
molto buoni, quasi tutti a inizio carriera. Poi, il passare delle mode, una
certa stasi creativa, molti dischi onesti e poco più; un' immagine e una
coerenza inattaccabili, una serietà ammirevole e profonda, indubbiamente, ma di
dischi rilevanti negli ultimi anni direi nessuno. Peter Hammill interessa ormai
pochi irriducibili anche nell'ambito degli appassionati del progressive, insomma
se lo filano ormai in pochi e non senza qualche ragione. O meglio, forse se lo
filavano in pochi. Non so, forse la notizia dell'infarto (auguri sinceri), forse
la notizia che il nuovo disco è una suite, forse semplicemente perché è un bel
disco ma il nome ha ripreso forza e vigore, opinioni positive da varie parti su
questo "Incoherence", buona la distribuzione (l'ho visto persino in un centro
commerciale), non che me lo aspetti al Festivalbar (ci mancherebbe), ma
ultimamente si nota una ripresa di interesse.
Per questo, dopo alcuni anno
nei quali l'ho ignorato (colpevolmente?), mi sono riavvicinato e ho comprato
questa sua ultima produzione. Rimanendone colpito.
Formazione ai
minimi termini con PH alla voce, tastiere e chitarra e due vecchi amici come
Stuart Gordon al violino e David Jackson al sax e flauto. Una suite, si diceva,
divisa in 14 parti. Il line up ristretto non faccia pensare a digressioni
minimaliste, il disco gode infatti di un impatto sonoro pieno e vigoroso con
tutti gli elementi tipici della poetica di Hammill, supportati da una ritrovata
carica creativa e inventiva. Tipico l'alternarsi di stasi liriche, supportate
dal pianoforte, di malinconica inquietudine, piene di dolcezza e di mal di
vivere, alternate a sfuriate rabbiose e nevrotiche; tipica la vocalità di
Hammill, epicentro come sempre dell'intero lavoro, tra spigolose esplosioni
tenorili e soffusioni colme di tristezza. Preziosissimo, poi l'apporto di sax,
flauto e violino nel dilatare uno spazio musicale altrimenti un po’ angusto. Non
mancano alcune parti discutibili in cui la musica stenta a decollare, ma non
intaccano un disco luccicante, di indubbia ricchezza espressiva e musicale, che
unisce l'urgenza e la secchezza di certa new wave
esistenziale, la ricercatezza del progressive e l'intensità di un Tim Buckley.
Non un
capolavoro, ma un piccolo gioiello di sensibilità emozionale in tempi di grande
aridità. Il più bel disco di Peter Hammill dai tempi di "Enter K" del 1982. Un
autore ritrovato. Ma forse eravamo noi a esserci persi.
15/12/2006