Naturalmente, i tempi cambiano. Qualunque sforzo appare insignificante.
La rotta diurna della Terra, il ciclico andirivieni delle ore, il raccordo invisibile e arcano che ci lega indissolubilmente alle stagioni fino al fallout imprescindibile di ogni attività.
Perché verso la fine di tutte le cose, nei dintorni del Quarto Mondo degli Hopi, come facevano notare Michail Rostovcev, zelante storico russo, il poeta di Charleville Arthur Rimbaud e più modestamente il padre di Jimmy Neutron, si assiste a una perdita dello slancio creativo dovuto più che altro allo spostamento del centro di gravità dalla dimensione terrena a quella ultramondana.
I tempi di "Aftermath" e "Beggars Banquet" appaiono remoti, oggi, ai cosiddetti giorni nostri, mentre "Streets Of Love" accompagna l'ennesimo spot di quella società telefonica che ti chiede continuamente come stai.
I tempi cambiano, c'è poco da aggiungere.
A Main Street hanno costruito un favoloso, luccicante centro commerciale con gigantografie di Sean Paul e di succulenti hamburger.
Racine insisteva sul fatto che ogni opera del genio umano è figlia della sua epoca.
E' predestinato quindi che gli Stones non scriveranno mai un altro "Sticky Fingers" (o che Jagger degusterà uno snack al cioccolato alla maniera di quella volta con Marianne).
Tuttavia, da queste constatazioni a "A Bigger Bang" il passo è decisamente siderale.
Al termine dell'ascolto del disco, non ci si può esimere dai soliti, ridondanti quesiti, certe volte più irritanti degli errori di Windows: era proprio indispensabile? Si tratta forse di uno scherzo? Di una furba trovata commerciale (che equivale grosso modo a uno scherzo)? Oppure del nuovo tentativo di consolidare l'inutile etichetta di band più longeva della storia della musica?
Beh, qualunque sia il motivo, il nuovo album degli Stones appartiene a un tempo che non esiste più, perché il sopraindicato cambiamento ha trascinato via tutti, Mick Jagger, Keith Richards, Charles Robert Watts, Darryl Jones e Wood compresi.
Era dal 1997, dallo scialbissimo "Bridge To Babylon", sèguito dell'altrettanto opaco "Voodoo Lounge" del '94, che gli Stones non tornavano in studio per registrare qualcosa. Nel frattempo, alcuni componenti avevano dato vita a dimenticabili lavori paralleli (pochi serbano qualche ricordo di "Goddess In The Doorway"), la Virgin aveva pubblicato le solite raccolte live e non ("No Security" del 1998 e "Live Licks" del 2002), diverse tappe del mastodontico world tour erano state cancellate, e Richards si divertiva a rilasciare certe interviste talmente lunghe (e prive di senso) da far impallidire il Ghezzi delle tre e un quarto del mattino.
In pratica, gli Stones non ne volevano sapere di abdicare e, un po' come il Bowie di "Reality", si trascinavano fintamente allegri, paghi e incuranti di tutto all'interno di una sorta di spettrale deformazione temporale.
Allo scopo di rinvigorire a dovere tali strategie di mercato o per evitare di infilare nelle future compilation le solite "Street Fighting Men", "(I Can't Get No) Satisfaction" e "Honky Tonk Woman", ormai ad alto rischio saturazione, risultava necessario un nuovo album.
Don Was, furbastro deus ex machina di questo nuovo, farneticante corso, già producer dei due precedenti album, si propone a Jagger nel febbraio 2005 in qualità di primo finanziatore dell'imminente disco.
Was, che per gli Stones rappresenta quello che Don King è stato per Tyson, comincia così a battagliare ogni media allo scopo di fortificare uno dei suoi pezzi forti, ovvero l'hype, questa orribile parola usata per alimentare l'attesa attorno qualcosa.
Dopo quasi otto anni di silenzio (?) i Rolling Stones tornano quindi sulle scene internazionali con "A Bigger Bang", e questa frase, talmente stereotipata da far invidia a un videoclip di Vasco Rossi, ben riassume la mediocre qualità insita nell'album.
Ma più che di un album, del frutto cioè di un autentico processo artistico ed emotivo, dovremmo parlare di un prodotto. Di un prodotto fine a sé stesso.
Perché "A Bigger Bang" (più di "Voodoo Lounge" e perfino di "Bridges To Babylon") non è che una pallida sequela di canzoni diligentemente costruite sopra un lungo e lucido tavolo da riunioni aziendale.
Le avvisaglie, del resto, sono immediate come il dolore provocato da uno stipite in pieno volto.
"Rough Justice", il pezzo che inaugura il festival delle banalità, è un classic rock senza alcun mordente, congegnato intorno a ordinari riff pseudo-glam e passaggi artificiosamente ruvidi e stradaioli.
Tanto per usare luoghi comuni, anche per immergerci più comodamente nelle organizzate atmosfere dell'album, "Rough Justice" dipinge la cosiddetta punta dell'iceberg.
"A Bigger Bang" suonerà così: esangue e privo di effettivi stimoli.
Tesi avvalorata dalle seguenti "Let Me Down Slow" e "It Won't Take Long", dove il senso di déjà vu diventa quasi insopportabile. E non è che l'inizio.
"Let Me Down Slow", in particolare, ricorda pericolosamente un singolo targato Bon Jovi di qualche anno fa, e la similitudine con la band americana la dice lunga sull'originalità del brano.
Ciononostante, da queste prime battute l'elemento disturbante non risulta essere tanto la completa assenza di qualsivoglia nuovo spunto.
Riciclarsi, in fin dei conti, è un espediente tacitamente adottato nella storia del rock. Dal già menzionato Bowie ai Pink Floyd, l'autocitazionismo garantisce spesso buoni effetti.
Ma in "It Won't Take Long" la sensazione di avere a che fare con una nuova "Love in Vain" è credibile quanto quel film con Costantino. Del "riffone macinato tosto che sferraglia via come lo Shuffle di Harlem", come si legge sul sito di Mtv, non c'è traccia alcuna...
Superato il deleterio trittico iniziale, il funky venato di black and blues di "Rain Fall Down", almeno nei primi trenta o quaranta secondi, potrebbe addirittura essere piacevole. Il vocione ruffiano di Jagger vagamente "Some Girls", i morbidi loop di Matt Clifford, il sound alla Starsky & Hutch e più di un debito con la famiglia Gibb risollevano per un istante o due l'interesse nei confronti del disco.
Ma il brano non detiene quella sintesi che forse esigeva, e un'improvvisa stanchezza accompagna i restanti, lunghissimi quattro minuti. I
l quinto pezzo in scaletta nonché primo singolo estratto, "Streets Of Love", studiato con cura certosina sopra quel ciclopico tavolo in radica, acutizza il desiderio di ascoltare piuttosto un disco dei Ragazzi Italiani.
Esattamente come i patinati Aerosmith degli ultimi mielosi (e pietosi) tempi, gli Stones tra falsetti e coretti, rendono raggianti Don Was e tutti i veejay del mondo, con un brano per certi versi disarmante, tanto è convenzionale e ammiccante, altro che veline...
L'onda lunga del riempitivo, che coinvolge il blues ubriaco di "Back Of My Hand" (che sfigurerebbe perfino come tema di fondo di un episodio di "Renegade"), le chitarre e i ritornelli alla Jet di "She Saw Me Coming" e i sentimentalismi preconfezionati di "Biggest Mistake", tocca l'apice con "This Place Is Empty", autentico coacervo di "ehi, ma dove l'ho già sentito?", che si fregia dell'unico merito di indicarci che abbiamo da poco oltrepassato la metà dell'album.
Tuttavia, come gli ignari protagonisti di un teen horror, siamo ancora all'oscuro di tracce come "Oh No, Not You Again" (mai titolo fu così involontariamente profetico), "Dangerous Beauty", e soprattutto di "Laugh, I Nearly Died", un altro grintoso lento che Hello Kitty gradirà sicuramente.
Il resto sfugge addirittura all'ironia più becera, con l'armonica della politicizzante "Sweet Neo Con" (che sembra un triste pretesto per seguire la moda delle invettive contro quel mattacchione di Giorgio W. Cespuglio), il retrogusto anni 80 di "Look What the Cat Dragged In" (che riporta alla mente, chissà come, il bizzarro duetto con Bowie) e lo swing spericolato (sic!) di "Driving Too Fast".
In chiusura, "Infamy" (altro titolo divinatorio), cantata da Keith Richards, suona un po' come una sorta di liberazione.
"A Bigger Bang" è un disco che difficilmente tornerà nel mio lettore, e nonostante tutte quelle battute sceme, covo un certo dispiacere nel rileggere quanto scritto.
Il peso specifico dell'opera degli Stones nella storia della musica è innegabile.
Ma il caustico Racine forse non aveva tutti i torti, e Rimbaud smise di scrivere a diciannove anni.
Venendo a mancare le genuine, istintive motivazioni, l'esito non potrà che gravarsi di spente tonalità.
La band di Mick Jagger, un passato glorioso alle spalle e un futuro rigoglioso di spot all'orizzonte, fa finta di nulla, e tranquillamente seduta presso un fast food, si rimpinza di soddisfazioni osservando le gigantografie di Sean Paul.
21/02/2015