Novembre 2000: esce "One".
Novembre 2003: esce "Let it Be (Naked)".
Rispettando la cadenza triennale, ecco il nuovo disco dei Beatles, pronto per essere venduto, impacchettato e trasformato nel regalo di Natale più gettonato del 2006.
Un attimo, niente prese in giro: i Beatles si sono sciolti quasi trent'anni fa, due sono pure morti...
Che diamine significa "il nuovo disco dei Beatles"? Oddio un'altra accozzaglia di pezzi scartati, paccottiglia di studio tirata a lucido, versioni di prova ripescate dagli archivi di Abbey Road.
No, no, sono celebri canzoni dei Beatles, rielaborate dal produttore storico George Martin assieme al figlio Giles.
La classica "edizione rimasterizzata", insomma? O è l'ennesima "compilation definitiva"?
Né l'una, né l'altra, ma anche un po' entrambe: è la colonna sonora… Di un film?
No, di uno spettacolo del Cirque du Soleil, con cui la buonanima di George Harrison aveva instaurato una collaborazione tempo fa.
E' un megamix beatlesiano, un continuum di musiche dei quattro rielaborate ad hoc .
In poche parole è un insieme di cover e remix di lusso spacciato per disco dei Beatles?
No, nessuna cover, parecchie canzoni profondamente rimasterizzate e vari remix, ma sarebbe meglio dire “pastiche”, anzi, come piace ultimamente, “mash up” di canzoni diverse.
Tipo che ci sono assoli sbagliati, basi pensate per un altro cantato, mostri a due teste che iniziano in un modo e finiscono nell’altro.
Uno stravolgimento. Oddio, ma quale stravolgimento, suona tutto naturalissimo.
Che se non conoscessi a memoria i dischi dei Beatles mica mi accorgerei che è tutto fuori posto.
Sarà che la mano è la stessa di allora, ma tutto quanto suona così "beatlesiano": non solo i pezzi, quello è ovvio, ma anche il trattamento riservatogli, gli accostamenti, le dissolvenze e le code piene zeppe di autocitazioni.
Di taglia-e-cuci di pezzi dei Beatles che riflettono l'estetica di oggi, ma devono fare i conti con la qualità del suono degli anni 60 ne abbiamo sentiti (e apprezzati) parecchi in questi anni, ma George Martin era l'unica persona che potesse realizzare un lavoro perfettamente immerso nello spirito di allora, ma dalla potenza, dall'espressività sonora assolutamente attuale.
Non un disco del 2006 che suona come un disco del '67, ma quello che sarebbe stato un disco del '67 se fosse stato registrato nel 2006.
"Love" e' un tuffo indietro di quarant'anni, un vortice temporale, un magma caleidoscopico da cui affiorano scintille di vita e creature colorate e multiformi.
Alcune si lasciano osservare a lungo, istrioniche, e mostrano tutti i cromatismi della loro nuova e sfavillante livrea.
Altre sbucano fuori d'improvviso, si guardano attorno per pochi istanti e scompaiono immediatamente, risucchiate dal gorgo per lasciare spazio ad altre fugaci apparizioni.
Un bagno inebriante di "spirito sixties" per farlo rivivere a chi già c'era, o per dare l'illusione di esserci stati a chi invece se l'è perso.
Dopo l'a cappella preparatorio di "Because", il brusio di uno sconquasso temporale catapulta dritti sotto al palco per sentire i Beatles come mai li avevamo sentiti.
DRANNG!
L'inconfondibile "Hendrix chord" iniziale di "A Hard Day's Night" proietta nel vivo dello show.
Assolo di Ringo da "The End". La tensione sale. Ma è "Get Back"!
Giusto un paio di minuti per gustarsela ed ecco "Glass Onion" mischiata con altre cento canzoni.
"Eleanor Rigby" è quella che già conosciamo, o quasi.
Qualche altro rumore da "assestamento cronico". "I Am The Walrus", poi di nuovo a due passi dal palco con una "I Want to Hold Your Hand" più rock che mai. E poi "Drive My Car" con...
No, basta, così vi rovino il disco, vi privo dello spasso di scoprire una a una tutte le genialate di cui Martin Senior e Junior l'hanno infarcito.
Una però la devo proprio svelare.
"Tomorrow Never Knows" è una di quelle canzoni che lasciano di sasso fin dal primo ascolto: 1966? Sembra registrata ieri, l'ultima traccia di "Revolver".
La "Within You Without You/Tomorrow Never Knows" di "Love" invece pare registrata domani.
Il mantra filosofeggiante di Harrison affogato in un sitar stordente, e alzando un po' i bassi cosa diavolo non è diventata la base di "Tomorrow Never Knows"!
Quel volpone di Martin mi ha fregato un'altra volta: "Ti eri mai accorto di che razza di roba hai sempre avuto sotto il naso?". Credevo di conoscere ogni minimo dettaglio di questi due pezzi, e invece no, non potevo immaginare cosa ne sarebbe uscito combinandoli.
Una sola volta Martin ha violato il comandamento di utilizzare solo materiale dell'epoca.
Per "While My Guitar Gently Weeps" è andato a ripescare una prova acustica di Harrison e ha composto un arrangiamento d'archi, semplice e sobrio. L'atmosfera ne esce stravolta, molto più intima: a distanza di quarant'anni ecco l'ultimo colpo da maestro del fantomatico "quinto scarafaggio".
Insomma, George Martin e figlio ci sono andati pesante, hanno fatto terra bruciata delle canzoni originali? Al contrario! Per quanto onnipresente e profondo, il loro intervento è stato soprattutto molto rispettoso.
Più che i "mostri a due teste", sono le sfumature e il suono così vivo a sorprendere e a toccare.
Altro che "disco di Natale", altro che ruffianata modaiola che tra due anni sarà buona solo per la soffitta.
Questa è proprio la maniera più creativa, originale, affettuosa, intelligente e appassionata di ricordare, far conoscere e omaggiare la musica dei Quattro - spanne e spanne al di sopra di qualsiasi altra possibile compilation.
Ma insomma, è o non è "il nuovo disco dei Beatles"? Chi se ne importa, è bello.
01/12/2006