Da più parti salutati come gli intellettuali del nu-metal, i Deftones degli anni 90 sono
anzitutto coraggiosa progressione stilistica che culmina con quel "White Pony"
(Maverick, 2000) tutt’oggi considerato come la nuova pietra di paragone di tutto
il genere (o tendenza, che dir si voglia). Laddove mostrava segni
d’inaridimento, o di facile semplificazione commerciale (melodico-casinara),
"White Pony" re-impostava il tutto disegnando sorprendenti traiettorie-canzone,
rilanciando intrecci di distorsioni pesantissime e elettronica brada, passi
furiosi e linee vocali dal tiro dosato ma intenso. Forse presa in contropiede da
sé stessa, la band non ripete il miracolo: l’omonimo "Deftones" (Maverick, 2003)
non fa che tratteggiare, seppur con progredita precisione e contrastata perizia
stilistica, quelle intuizioni.
Dopo un nuovo periodo di pausa di tre
anni, arriva il successore: "Saturday Night Wrist". Da subito sembra di
ascoltare una replica di "Deftones", solo sottoposto a una stretta reazionaria
ancor più decisa. "Rapture", una delle tracce forti, è riff death-metal con
elementare evoluzione emo e voce filtrata (un po’ rap alla Rage Against The
Machine, un po’ ossesso thrash ), dissonanze dello skretch ,
batteria brutale e chitarre scurissime. "Mein" accorpa distorsioni annacquate
stile tardi Soundgarden a un
ritmo sostenuto e a un chorus incisivo, introdotto da uno stacco
acrobatico, pure annoverando una sorta di drone-ambient nello sfondo.
"Kimdracula" riduce ulteriormente l’originalità del riff, e "Rats! Rats!
Rats!" alza tiro, velocità e furia, intervallando strutture electro e rulli
compressori di power-chord . Spetta in ogni caso agli esercizi timbrici
(pure una commistione tra elettronica e chitarra vicina a certi Limp Bizkit)
della lunga introduzione strumentale di "U, U, D, D, L, R, L, R, A, B, Select,
Start" di far risalire la china dell’interesse.
Qualora non ci sia nulla
da eccepire sull’apertura di "Hole In The Earth", quasi un manifesto del nuovo
corso (e forse una loro versione della ballata pop), i pomposi tempi lenti di
"Cherry Waves" e "Beware" (esplosioni a go-go nel chorus ), il noioso
numero glam-industriale di "Pink Cellphone", la melodia neo-prog senza
vita di "Xerces", la minestra riscaldata crossover di "Combat" e i lagnosi
singhiozzi di fuzz della conclusiva "Riviere" invogliano a rispedire
tutto al mittente.
Amorfo tour de force di produzione dal quale
in realtà si salva tutto e niente, che rialza la posta dell’ambizione (dando
pure una parvenza d’utilità all’altrimenti futile progetto parallelo Team
Sleep), consolida la competenza, tralascia la concisione e fa spallucce
dell’alta prevedibilità. L’equilibrio instabile tra artifici di furbizia
melodica da videoclip e spigoli screamo non riesce sempre a sostenere il peso
degli stereotipi. Ci sono di nuovo furia e urgenza (anche se dettate da non si
sa bene cosa), nonostante tutto.
06/10/2006