Aspetto. Sembianza del volto e anche di tutta la persona.Aspetto. Io aspetto. L'attesa.Dove sta il senso del titolo del nuovo disco degli Altro? O forse nome della band e titolo del disco stanno lì, sulla chioma della ragazza disegnata di spalle, a completarsi? Altro aspetto. Un'altra apparenza. Oppure. Aspetto altro. Mi aspetto altro. Sto esagerando. Senza dubbio. Come è possibile che 17 - dico, DICIASSETTE - minuti di musica che ti investono della loro malinconica rabbia, possano generare queste riflessioni così puntigliose e magari senza senso? Come è possibile che undici "canzoni" come queste riescano, con poche parole e poche note, a lasciarti in uno stato di stordimento e di curiosità tale da volerne ancora e ancora senza che si riesca a capire quale sia la chiave di tutto questo, senza che si riesca a sapere cosa stia guardando la ragazza di spalle, o se abbia gli occhi chiusi o cosa stia aspettando.
"Vorrei sapere" sono le prime parole di questo terzo disco degli Altro. Anche io vorrei sapere. Vorrei sapere qual è il segreto degli Altro, così come ho voluto sempre sapere quale sia la magia dei disegni di Alessandro Baronciani, delle poche parole che li accompagnano.
"Canzone di Andrea" è una canzone scritta per una persona. Ce n'è più d'una in questo disco. "Sì lo so, lo so, non siamo noi". Sembra tutto criptico e incomprensibile. Invece le parole degli Altro sono sempre state semplici. Scheletri di parole sorretti da scheletri di note. Dal respiro affannoso e breve che si rompe a un tratto perché, all'improvviso, capita che la luce si spenga. Questo mi trasmette "Aspetto". Aspettare l'imprevisto. Che di per sé non ha senso. Le possibilità finiscono e spariscono senza preavviso nelle nostre vite. Premi play e ti sembra di correre. Uno scatto senza sapere dove andare. Undici polaroid perse da qualcuno e trovate per strada che ti fanno regali: volti, posti, ricordi, amori, legami. Tu guardi e lavori di fantasia. Correndo un rischio certo, quello di non capire.
Ma che importanza ha? E cosa è importante? Quello che hai perso? Quello che hai preso? Quello che sei?
E la musica? Cosa c’è dentro “Aspetto”? C’è una miscela di post-punk debitore dei Joy Division (nella forma) così come dei primissimi Scritti Politti (nell’attitudine DIY), c’è l’irruenza del punk e la malinconia dei Cure. In “Passato”, primo singolo (se così vogliamo chiamarlo), ci sono una cassa dritta e una linea di basso che sanno tanto di Manchester, un testo fatto di una frase che si ripete di continuo e rovina su sé stessa sino a non lasciar distinguere quelle poche parole che la compongono. “Quadro a.” e “Ramirez” sono trafitte dalla stessa tensione: urla cercano di avvicinarsi ma più ci provano e più lo sforzo è vano, rimangono in un limbo, mentre chitarra, basso e batteria vanno caracollando ma mantenendo la solita furiosa e nevrotica andatura.
“Smettere” si guarda le scarpe: chitarre acustiche innaffiate dai riverberi, una frase a sinistra e poi una a destra chiedono attenzione, parlano di qualcosa che non c’è più. I minuti scorrono velocemente, si parla spesso di treni, di partenze, di giorni passati. Le relazioni, nelle loro forme più diverse. Persone che rispondono al telefono e altre che non sono più come un tempo. Undici canzoni per fare impazzire i battiti, per spezzarli, per maltrattarli.
Non servono più di 17 minuti per farsi colpire al cuore. E questo disco è qui, pulsante e sguaiato, a farsi dimostrazione lampante della cosa. Pieno di nuvole viste dalla finestra da una persona sola, in una stanza, in una città. E la stanza è piena di fotografie. E quella stanza è altre stanze. La mia. Le vostre.
10/11/2007