Ecco il caso di una band in netta crescita rispetto all’esordio. Gli Editors approdano al secondo attesissimo album, forti dei buoni riscontri del precedente "The Back Room" ed è di pochi giorni fa la notizia del primo posto sorprendentemente raggiunto dal nuovo "An End Has A Start" nelle chart britanniche, a dimostrazione di come l’Inghilterra in quanto a vendite effettive rimanga probabilmente l’ultimo mercato ancora fertile per la cultura rock, per lo meno in Europa. Un mercato dove un certo circolo virtuoso alimentato a dovere dalla stampa di settore (di sicuro criticabile e poco affidabile nelle sua spericolate strategie, spesso gratuitamente sensazionalistiche) funziona ancora discretamente bene (ve li immaginate ad esempio, facendo un piccolo parallelo, i Baustelle al primo posto in Italia?).
Per cogliere l’evoluzione intervenuta nella proposta musicale del gruppo di Birmingham, forse, non occorre spingersi oltre la prima traccia, dall’eloquente titolo,"Smokers Outside The Hospital Doors": gli Editors, specie nella monumentale apertura del ritornello, intessuta di cori estatici e risonanti, dimostra di aver ascoltato a lungo e infine metabolizzato la lezione degli Arcade Fire e del loro piccolo grande capolavoro "Funeral", nel tono volutamente altisonante, nell’andatura vagamente operistica e in una certa religiosità di fondo che porta le chitarre a spalancarsi su scenari di celestiale dannazione e smarrimento.
Appaiono più marcate, rispetto all’esordio, una certa attenzione alla costruzione "drammaturgica" dei pezzi e una maggiore volontà di tridimensionalità e profondità prospettica, ma l’umore complessivo delle composizioni è piuttosto torvo e, se possibile, ancora più imbronciato di quanto già esperito in "The Back Room" (valgano "The Weight Of The World" e la conclusiva ballata, peraltro non del tutto riuscita anche se molto toccante, in bilico su due scheletriche note di pianoforte, "Well Worn Hand"). A questo devono di sicuro aver contribuito i lutti patiti da alcuni membri della band e un generale periodo di crisi e ripensamento seguito al successo di "The Back Room". Quello che più importa è che i sentimenti messi in gioco dagli Editors risultino in ultima analisi sinceri e intensamente partecipati e il loro suono in alcuni pezzi più ispirati ("Bones" ad esempio) cominci a guadagnare a tratti una certa, facilmente avvertibile, riconoscibilità.
Il che non è poi poco per una band da sempre considerata da molti addetti ai lavori la risposta inglese (e verosimilmente più radiofonica e catchy) all’affondo portato dall’esordio degli Interpol, "Turn On The Bright Lights", al fragile universo dell’indie. Il comune riferimento ai Joy Division (spesso smentito dal gruppo nelle interviste rilasciate) appare in alcuni passaggi ancora centrale e molto caratterizzante (la contiguità risiede soprattutto, se non esclusivamente, nel tono sofferto e baritonale della voce del cantante Smith, simile anche a quelle di Richard Butler dei Psychedelic Furs e Ian McCulloch degli Echo And The Bunnymen, altre influenze tangibili), ma il referente principale di questi "nuovi" Editors risultano essere soprattutto gli U2. Basti ascoltare il particolare modo in cui il chitarrista Urbanovitz innesca e lascia vorticare i suoi cicloni chitarristici nelle comunque ottime "An End Has A Start" o in "Bones". Questo fa sì che gli Editors entrino in rapporto con tutta una intricata e fitta genealogia di band che in anni più recenti hanno cercato di rielaborare certe intuizioni originarie dello storico gruppo irlandese (con alterni risultati), Coldplay e Snow Patrol su tutti (ma forse anche i Radiohead, soprattutto quelli di "The Bends", sicuramente importanti nella formazione degli Editors e del loro secondo disco in particolar modo). Perché in fondo, canzoni avvolte da una scorza di ispida e pungente ritrosia dark, come "When Anger Shows", "Spiders" o "The Racing Rats", coltivano un segreto cuore melodico e "pop" (di insospettabile maestria artigianale, peraltro), che non è poi nemmeno così difficile da schiudere e succhiare.
Come dire: fiori del male, ma pur sempre fiori. Anzi, si sarebbe quasi tentati di osservare come certe canzoni tendano progressivamente a incamminarsi lunghi i vasti sentieri di un moderno stadium-rock corale ed epico (percepibile in brani come "Push Your Head Towards The Air" o "Escape The Nest"), che riporta alla mente un gruppo, invero non molto apprezzato in Italia ma ormai assurto al rango di piccola istituzione in Gran Bretagna, ovvero i gallesi Manic Street Preachers, che dedicarono all’amico Richey Edwards, misteriosamente scomparso, il loro disco più famoso (e molto simile per impianto e sonorità a questo "An End Has A Start"), "Everything Must Go", del 1996.
Pur non essendo ancora pervenuti a un’opera compiuta ed esente da (comunque spesso veniali) cadute di tono, gli Editors dimostrano una certa solidità e realizzano un disco che, sollevandosi sensibilmente dal livello medio dell’attuale produzione rock anglosassone, si segnala per la sua intensità e per una voglia di raccontarsi sempre dignitosa e rispettabile.
04/07/2007