I Thrangh nascono a Roma nella prima metà degli anni 2000. Si tratta di un combo alla ricerca di retaggi stilistici arditissimi che non sentono ragioni di forme compiute o quantomeno regolari, e che pure si danno a perenni devastazioni cacofoniche, senza soluzione di continuità. Anche i loro live set (notevole quello di luglio 2006, in occasione di Arezzo Wave, ndr) sono improntati a vastissime suite improvvisate, portati avanti a furia di maciullamenti del free-jazz di grado zero di Ornette Coleman, delle inserzioni pestate dei Naked City, e dell’hardcore progressivo più torrenziale (e precisissimo) di marca Dillinger Escape Plan, o NoMeansNo. Forse solo i compatrioti Anatrofobia sono arrivati a tanta radicalità d’interpretazione.
Nel 2005 esce - autoprodotto - "Il castigo esemplare", loro primo demo (in realtà un album a tutti gli effetti, dal quale fa bella mostra la lunga "I"), ma è solo con il debutto vero e proprio, "Erzefilisch", che i Thrangh mettono seriamente le cose in chiaro. In "Cobra verde" (già presente nel primo Ep, ma qui riveduto e corretto), la band mette insieme la concitazione di un riff in tempo complesso, una stasi strumentale distesa (quasi Ecm), una pesante distorsione con divagazione del sax (scampoli di "21st Century Schizoid Man"), un cambio di tempo con una nuova idea canterburyiana (e demoniaca) e una schizzata Zorn-speedmetal da malati. Il concetto di corpo musicale in variazione armonica perenne, repellente e pure gratuita, è ribadito più volte nel corso di "Sagapa", chill-out deflagrata da improvvisazioni collettive e funky-rumba sincopati, "Asa Nisi Masa", sax alla Zu e drum’n’bass arruffata, e "Camadogi", fluente componimento jazz-rock dall’abnorme quantità d’idee, di jam che si rincorrono instancabilmente.
Gli intermezzi (la serie di "O_O" e il finale "=:|") sembrano una loro personale versione dei "Loop" degli Swans circa "Body To Body, Job To Job", o del Satie degli "Enfantillages Pittoresques": il primo è guidato dal basso e aleggiato da nubi tossiche di sax e feedback, con batteria incespicante, il secondo è uno schizzo atonale, il terzo uno striminzito swing da piano-bar malfamato, il quarto un esperimento sulle regioni gravi degli effetti sonori strumentali (con tanto di didjeridu). L’ultimo, crescendo psicotico sfigurato dall’elettronica, è la chiusa catastrofica dell’opera.
Roma, Caput Jazzcore. Dirlo fa un certo che, ma se la sono cercata. Band appassionata e tecnicamente caparbia, ma - tra tutti - è l’indemoniato Tommaso Moretti, batterista, a meritarsi la menzione speciale. L’amalgama strumentale è ancora approssimato per eccesso, o per accumulazione, e - colmo dei colmi - trova il suo punto di forza nel non stancare, nemmeno a furia di ascoltarlo e riascoltarlo. Nel mezzo (specie la title track) sciacqua ingenuamente le idee con passaggi a vuoto e prove di muscoli un po’ di superficie; è però arduo negare la portata creativa di questo piccolo esperimento di meta-rock. Thrangh è un nome con possibili tracce onomatopeiche; in compenso, l’artwork non lascia scampo.
04/09/2007