Certe volte la musica rock tira brutti scherzi, ma quando accade è meraviglia, stupore. È il caso dei Tinariwen, gruppo rock africano composto da ex-guerriglieri berberi. Quella portata da loro è stata una vera rivoluzione culturale: in quelle terre desertiche dove le persone si organizzano ancora in tribù, la musica rock (intesa non solo come sound, ma anche come esistenza di vere band) era qualcosa di inconcepibile prima che arrivassero loro. Come i riff di Chuck Berry, le canzoni di Dylan, gli assoli degli Stones e i tre accordi dei Sex Pistols, il rock psichedelico dei Tinariwen segna l’inizio di una nuova era.
La loro rivoluzione non è solo di carattere culturale: suonare rock per i Tinariwen non equivale soltanto a compiere un atto di creazione artistica ed estetica, né è mero entertainment; è qualcosa di più: un atto politico. La loro voce è quella di un popolo oppresso e perseguitato da millenni (prima cartaginesi, romani e vandali, poi le potenze coloniali e i gli odierni regimi musulmani), popolo che non ha una nazione e nemmeno un nome univoco: noi occidentali li chiamiamo "berberi", parola che deriva dal latino "barbari" e che è nata con valore spregiativo, mentre gli arabi li chiamano "Tuareg", che vuol dire "dimenticati da Dio". Loro, però, preferiscono farsi chiamare "Imazighen", ovvero "uomini liberi". La loro musica, in questo contesto, si pone come baluardo di resistenza culturale: i regimi musulmani non riconoscono alle popolazioni Imazighen il diritto di avere una propria lingua, di avere un proprio credo religioso, di avere una propria storia. Cantare nella propria lingua per questo gruppo è un’azione sovversiva.
Sin dal loro esordio "The Radio Tisdas Sessions" del 2001, i Tinariwen si sono guadagnati gli elogi delle platee occidentali, fino ad arrivare a conquistare addirittura il cuore, non certo tenero, di Robert Plant e del suo chitarrista Justin Adams, produttore di questo loro terzo lavoro. Il motivo di tanta ammirazione c'è e si coglie fin dai primi ascolti: quello dei Tinariwen è un moderno blues desertico, suonato con chitarre acide di stampo psichedelico che si insinuano tra le piaghe di travolgenti ritmi africani.
L'errore da non commettere è quello di pensare di avere a che fare con l'ennesimo, effimero, fenomeno esotico a cui la scena world sembra ormai assuefatta. Al contrario, il loro sound ha del miracoloso nel modo in cui riesce a raggiungere quell'equilibrio sopraffino tra modelli occidentali e musica tradizionale del Sahara. Basti ascoltare episodi come l'iniziale "Cler Achel", blues magmatico e metafisico, o il capolavoro lisergico "Assouf" per rendersi conto di essere di fronte a una band di notevole spessore.
Il disco è solido e pieno di piacevoli sorprese (dal mantra di "Ahimana" all'esorcismo di "Toumast"), ma accusa qualche calo di tensione che gli impedisce di affermarsi pienamente come capolavoro. Tuttavia, per un gruppo di ex-guerriglieri impegnati a difendere la propria identità culturale non più con fucili ma con chitarre elettriche e percussioni, l'aver fatto un disco ottimo, capace di rompere l'isolamento culturale in cui versano le popolazioni Imazighen, sembra un risultato non meno prodigioso.
23/09/2007