Fastosa collaborazione fra il power duo Black Keys, autori ed esecutori di tutti i brani in scaletta, e una sporca (mezza) dozzina di gloriosi bastardi della vecchia e della nuova scuola (Mos Def, RZA, Ludacris, Billy Danze degli M.O.P., Pharoahe Monch, compreso Ol'Dirty Bastard, psicofonicamente redivivo) che provvedono alle liriche e alle voci. Ciò che rende Blakroc profondamente diverso dalle solite compilation costellate di featuring estemporanei (magari anche gradevoli) concepiti più che altro per lanciare il sasso nello stagno della novità, è il taglio black e roots delle sonorità apparecchiate dai due musicisti di Akron. Brani in cui l'amore per le fondamenta della musica afro-americana (lo stomp, il blues, il funk, il soul) e per la psichedelia (la chitarra di Auerbach, soprattutto) culmina nell'ultima fronda di quest'albero genealogico: l'hip-hop, il rap, le sequenze di giri sincopati e regolari. Rap-rock (o meglio black-rock, appunto) nel senso più ampio del termine, dunque.
Raffinato, compatto, e prevalentemente frutto di session strumentali. Orchestrato secondo una visione coerente e progressiva del divenire musicale (e con un approccio costruttivo e post-moderno), non una semplice sovrapposizione adrenalinica e muscolare di riff e flow.
Un compromesso al rialzo esaltato anche dalla produzione condivisa fra Damon Dash (noto magnate dell'hip-hop, co-fondatore della Roc-A-Fella con Jay-Z) e Joel Hamilton (produttore rock e socio di Tony Maimone allo Studio G di New York, dove l'album è stato materialmente registrato) che raccorda in modo efficace l'approccio diretto alla musica "suonata" con gli effetti (pochissimi a dire il vero) e la pulizia digitale tipica dei dischi rap. Groove tribale, bassi sordi ed elastici, chitarre acide e iridescenti sommati al rapping lascivo di Ol'Dirty Bastard, che usa le sue dodici battute come una sorta di tavola Ouija, creano un terremoto al nono grado della negritudo già nell'opener "Coochie". Chi ben comincia è a meta dell'opera, dicono, e così la morbida e sensuale "On The Vista", sospinta dal basso onusto e convesso, manda in orbita il flow cantabile e felpato di un Mos Def impeccabile come da copione.
Poi giù giù seguendo il corso del fiume, come il bianco Huck e il negro Jim, fino al cuore bianconero del blues: il dittico composto da "Dollaz & Sense" - i lick sublimati e piangenti di Auerbach fanno da contraltare alla grinta innodica e guerreggiante di RZA (che canta pure il ritornello in perfetto shouting a 78 giri) - e "Ain't Nothing Like You (Hoochie Coo)", buonanime del Delta che infestano questa sorta di moderno spiritual post-Katrina (superbo il canto da lavoro di Mos Def e la narrazione di Jim Jones).
Ma la palma del capolavoro spetta a "Stay Off The Fuckin' Flowers": psichedelia screziata, disturbata e jazzata con cui Raekwon, dopo l'apoteosi personale di "Only Built For Cuban Linx...pt 2", uno dei migliori dischi rap del decennio a giudizio di chi scrive, suggella un anno magico. E il resto è su altissimi livelli: lo stomp ferroviario con distorsioni soniche "Telling Me Things", il cingolato hard-funk "Hope You're Happy" guidato con affabulante leggiadria da Q-Tip e Billy Danze e, nel ritornello, cantato da Nicole Wray (una delle voci soul più calde in circolazione) e poi sempre Billy (scatenato) e Nicole (più Jim Jones) nel maestoso soul psicoattivo (a tratti sembrano i Blues Brothers in trip depressivo con l'organo degli Iron Butterfly) di "What You Do To Me".
25/12/2009