E’ evidente che con certi demoni è impossibile scendere a patti. Li si accudisce, li si lascia crescere dentro l’anima, senza vergognarsene. In fondo, possono sempre tornare utili. T'insegnano, per dire, a fronteggiare la meschinità del quotidiano, a sopportare la tragica causalità che sembra reggere le sorti di ognuno di noi. Spesso, diventano i nostri migliori amici e, non di rado, offrono anche qualche giro al bar.
Con i Khanate diventati ormai solo un ricordo, Alan Dubin avrà pensato bene di non restare da solo a combatterli. Coadiuvato da Jamie Sykes (Burning Witch, Thorr's Hammer e Atavist), Carter Thornton (Enos Slaughter), Jun Mizumachi (Ike Yard) e Brian Beatrice, cala, così, l’asso del progetto Gnaw, ennesimo, devastato mutante post-metal (o, cos’altro, ancora?) alle prese con l’eredità di quel ricordo che, col passare degli anni, diventa sempre più ineludibile, incombente, magnetico.
“This Face” non è un disco per tutti. E’ terrore puro. In una terra desolata, abitata da fantasmi che aspettano solo il momento buono per suicidarsi ancora, questa sarebbe una colonna sonora coi controcazzi. Se fate ancora fatica a capacitarvi che non esistono solo melodie e ritornelli, se i vostri maledetti pregiudizi vi hanno ormai rimbecillito, fatene pure a meno. Perché in questi scarsi cinquanta minuti di finissima tragedia, non c’è posto per voi.
D’altra parte, la voce che mangia le cervella e il caos desertificante che prende di petto l’ultra-doom dei Khanate per riconsegnarcelo sotto forma di caleidoscopica deflagrazione di epilessi incontrollate, sovratoni fuori controllo, metalliche dissonanze e freddure insondabili (“Haven Vault”)… tutto questo, dicevo, pone un limite tra chi sperimenta il suono come liberazione e chi, invece, preferisce addomesticare il dolore con lacrime di coccodrillo.
La sincerità di un suono si misura con la forza che riesce a sprigionare oltre il suo stesso argine. Nel silenzio di una notte ferita da “tagliole di luna”, potreste quindi ricordarvi del grindcore rallentato di “Vacant”, delle sue picconate ritmiche, di quella voce che tutte le cose cattive lascia germogliare davanti agli occhi, quasi fossero (ancora!) fiori nati - chissà come, chissà perché! - dentro un cassonetto dell’immondizia. A proposito della terra dei fuochi, insomma. A proposito del veleno che c’invade, ignari del fatto che, più che il cancro delle viscere, ci raggela e ci condanna il cancro del cuore meccanico.
Ma qui, allora, tornano d’obbligo i Khlyst, ma giusto per rimarcare un parallelo, un raccordo intertestuale: questi ultimi, che della precedente band di Dubin rappresentavano una sorta di malefica emanazione ambient-isolazionista, osservano questi nuovi aficionados del verbo sonico distruttivo affiancarli sul lato destro, mentre trascinano quelle lente implosioni di malvagità dentro una piena di fanghiglia sludge (“Talking Mirrors”).
Eppure, non è qui che osano fermarsi. La claustrofobia black-metal dei Velvet Cacoon li costringe a ridisegnare ancora i confini del loro ferale oltraggio, sfondando la soglia fino a sfociare in un incubo siderale dove le urla (quelle urla!) vengono, poco alla volta, frantumate in mille ipotesi di morte (“Feelers”). Si tratta, insomma, di brani monstre: brani dove la redenzione passa necessariamente attraverso il martirio (“Ghosted”).
Un martirio che pur preserva il dolce smarrimento dell’amore, tanto che in quel minaccioso innesto Gravitar-Godflesh che risponde al nome di “Backyard Frontier” (cacofonica agonia e titanismo psichico, orrore e turpiloquio spirituale…) è possibile ascoltarne il sibilo soave tra gli strepiti spietati (“I love you, I love you…”). Agghiacciante.
Come il crooner alticcio che, in mezzo alle folate nucleari di un attacco alieno, blatera parole subliminali (“Watcher”). Come la corsa a perdifiato verso il “buio-orco che si maciulla in rupi” di “Shard”. Tanto che ci viene il dubbio che il grande Andrea Zanzotto sia già un loro fan…
Lui che ascolta “nuotando tutta questa violenza”…
24/02/2009