Qual è la colpa di Patrick Watson, forse quella di essere un gruppo con un nome da songwriter?, forse quella di non essere abbastanza hype o indie per piacere a Pitchfork?, o forse l’album di Patrick Watson è troppo sovrastrutturato e rischia di non dare all’ascoltatore un punto di approdo?
In verità ” Wooden Arms” è un album sontuoso, pervaso da un vortice di suoni che non flirta con gli standard del rock, attraversato da un range emotivo troppo intimo. L'enorme quantità di spunti è cesellato con leggerezze e trasparenze minimali, rischiando di non coinvolgere le anime sfuggenti che popolano l’audience della musica dei nostri tempi. Il pericolo che il pubblico, sedato dal taglia e cuci e dallo scarica e archivia, non presti attenzione a un album poco ruffiano è dietro l’angolo, la speranza che queste parole vi stimolino ad andare oltre è legittima.
La struttura sonora di "Wooden Arms" coinvolge elementi folk-rock ma anche classici, psichedelia, musica da film e telefilm ("Twilight Zone"), ritmi ottenuti da strumenti improbabili (ruote di bicicletta, pentole, padelle, scarti di metallo), jazz anni 50, tutto assemblato in un flusso emotivo coinvolgente e originale, dove nessun suono o strumento invade gli spazi altrui, realizzando una sequenza che assomiglia a un concerto di una orchestra folk.
Composizioni dalla struttura forte e versatile, una timbrica cristallina che sfiora l’elettronica ma incanta come un finger-picking, testi che raccontano storie surreali ma non improbabili, personaggi la cui vita è sceneggiata come in una piece teatrale di Broadway, frammenti orchestrali privi di romanticismo, brani che mantengono una identità pur nel continuo emotivo e stilistico dell’album. L’equilibrio raggiunto dal gruppo annulla le labili influenze che sembravano destinate a corroderne l’autonomia stilistica, le inflessioni vocali hanno ormai leggeri richiami ai Radiohead, le atmosfere più malinconiche esibiscono toni da crooner, mentre sprazzi di musica classica sottolineano armonie più crepuscolari la cui profondità rimanda ad Antony & The Johnsons.
La scena musicale da cui proviene la band ha già offerto emozioni di rilievo con Arcade Fire e Godspeed You! Black Emperor, e la collaborazione con i Cinematic Orchestra aggiunge altri elementi per inquadrare la complessità delle anime che pervadono i suoni di “Wooden Arms”.
Le canzoni, seppur meno prevedibili, restano in mente come piccoli gioiellini pop, esempio fulgido “Big Bird In A Small Cage”, una delicata folk-song con banjo, voce femminile e un delicato profumo di New Orleans, che cattura l’attenzione anche dell’ascoltatore più distratto.
Si fa notare la padronanza delle partiture orchestrali che caratterizzano la breve “Hommage” e l’intensa “Man Like You”, dove la sperimentazione lascia il campo alla ipnosi acustica che Nick Drake rese arte.
Il primo singolo “Tracys Waters” spinge verso il dream-pop inglese confluendo nell’epica “Beijing”, dove assoli di percussioni e ruote di bicicletta mettono in musica un delizioso racconto di vite altrui con un leggiadro minimalismo.
Un altro versante sonoro dell’album devia verso atmosfere jazz quasi felliniane, con sagaci richiami a Tom Waits o ai sottovalutati Real Tuesday Weld, ed ecco la giostra sonora di “Traveling Salesman”, un visionario racconto di un marinaio che brinda con qualcuno piovuto dal cielo.
La title track "Wooden Arms" è una malsana ballad, dove il jazz incontra folk e musica madrigale con tanto di cori femminili e mandolino, la perfetta riuscita di un tale ibrido stilistico rende chiara la grande padronanza e conoscenza musicale del gruppo.
La ricerca sonora ha inoltre spostato verso il ritmo una maggiore attenzione, ma senza appesantire i suoni, che risultano magicamente morbidi e sinuosi come in “Down At The Beach”, i cui ritmi assemblano un moderno mantra, sul quale brevi e preziose note di pianoforte tessono una tela armonica di rara bellezza.
Non si attenuano le emozioni che diventano ancora più sontuose e barocche in “Where The Wild Things Are”, che incrocia diverse tessiture ritmiche con spunti neo-classici, una piccola sinfonia multietnica che esibisce atmosfere da colonna sonora per un film immaginario.
Il finale di “Machinery Of The Heavens” sembra voler lasciare molte delle domande dell’ascoltatore senza risposte, nulla sembra concluso, le storie, le armonie non cercano un corpo stabile ma seminano stupore e meraviglia nell’improbabile tentativo di risvegliarci dalla mediocrità.
L’ascolto di “Wooden Arms” riporta alla mente le strane escursioni sonore dei musicisti che negli anni 70 fuoriuscivano da gruppi famosi (ad esempio David Crosby, Alexander Skip Spence, Bruce Palmer) e realizzavano album fuori dai tempi e dalle mode, capaci di risultare ancora oggi nuovi e vibranti. Pur senza invocare questi grandi classici, non ho dubbi che il nuovo album di Patrick Watson sia uno dei capolavori dell’anno.
04/06/2009