C'era una volta un ponte. Aveva il compito di unire due mondi: la parte musulmana e quella cristiana della città di Mostar, in Bosnia. "Stari Most", il Vecchio Ponte, così lo chiamavano. L'odio e la violenza degli uomini lo hanno abbattuto, l'affacciarsi di un anelito di speranza lo ha fatto risorgere. Perché è questo, in fondo, che fanno i ponti: proiettare lo slancio del cuore oltre le sponde della meschinità quotidiana, verso l'infinito.
C'è un'antichissima tradizione, a Mostar, che consiste nel tuffarsi dal Vecchio Ponte nell'acqua gelida della Neretva: da sempre i ragazzi la considerano una sfida da affrontare almeno una volta nella vita e il tuffo dal bianco arco di pietra che si affaccia sul fiume è considerato dagli abitanti come il simbolo del passaggio dalla giovinezza all'età adulta. È proprio ai tuffatori di Mostar che Damian Katkhuda, già frontman degli Obi, ha scelto di dedicare il nome del suo primo progetto solista, rendendo omaggio alla cittadina bosniaca che ha dato i natali alla sua famiglia paterna.
Avevamo già incontrato Katkhuda nel 2008, quando insieme a Damian Montagu ci aveva ammaliati con la magia di "A Long Way From Somewhere", trasportandoci in un mondo di delicatezze folk incastonate in una cornice strumentale di raffinata fattura. Registrato in una fattoria immersa nel sud boschivo della Francia con l'ausilio di Will Worsley alla produzione, "Don Your Suit Of Lights" mette a nudo la personalità di Damian, spogliando i brani dai ricchi ed eleganti arrangiamenti del lavoro precedente e rivelandosi nel candore di composizioni leggere e permeate da un'aura vagamente malinconica.
La musica di Katkhuda si posa su un prato incantato di banjo e chitarre, ondeggiando lieve tra carezze d'archi e sospiri di piano, mentre fantasmi di singing saw echeggiano tra gli alberi e una rugiada di fiati e percussioni rinfresca l'aria mattutina. Canzoni lievi, percorse da inattese aperture melodiche che si fanno strada come raggi di sole tra le nuvole: un palpito di ali tra i fiori, un fruscio di passi sull'erba, un canto di gabbiani in lontananza.
Preceduta dal velo soffuso del prologo di "With His New Armour", subito ecco fare capolino "Vagabonds And Clowns", una ballata in tenue acquerello popolata di ubriachi, corone e vecchi juke-box da cui sbocciano all'improvviso i colori di un coro contagioso, con i Noah And The Whale dietro l'angolo. Il librarsi svagato di "The Honey Tree" si dipana con un profumo di polline ed amori appena germogliati, accarezzato dalla voce gentile di Katkhuda: "Herd the buzzing of the honey bees/ Making honey just for me/ And life's alright/ I think I'll end in feeling fine". E mentre la strada attraversa la fragranza estiva dei fiati di "The Medicine Show", l'arpeggio dolente di "Tricky Hands And Radios" si veste di nostalgici abiti gitani.
"Don Your Suit Of Lights" è un album delicatamente colorato, con soluzioni melodiche che poggiano su una trama folk-pop di fondo e sfumature strumentali variegate capaci di conferire ai brani connotazioni ogni volta diverse, in modo da creare tanti microambienti dotati ciascuno di un proprio equilibrio e di una propria individualità, seppur accomunati dalle atmosfere pastello e da una candida dolcezza di fondo. La musica di Katkhuda sembra trasportarci in un minuscolo e solitario pianeta, disperso in un cosmo di carta da zucchero, dove un malinconico Piccolo Principe coltiva amorevolmente le sue rose.
30/12/2009