Misticismo fantasy con divagazioni hippie in salsa orientale. Distorsori elefantiaci come le zampe dei pantaloni. Camicette fascianti e acconciature leonine. Acuti esasperati (o esasperanti) e attitudine "let's rock". Roba che Lester Bangs li inseguirebbe fin nelle loro bare minacciandoli con un paletto di frassino. Eppure a volte ritornano.
Rimasto solo sul ponte di comando di quell'incrociatore old-fashioned conosciuto con il nome di Wolfmother, dopo il clamoroso e inatteso successo del loro tardivo (il gruppo girava da almeno cinque anni e già allora non erano esattamente dei ragazzini) debut omonimo (2005), Andrew Stockdale rimane sostanzialmente fedele al prediletto armamentario settantesco appena limato dal senno del primo decennio del nuovo secolo. Hard-rock revisionista in qualche modo sintonizzato sulle nuove leve stoner e neo-psichedeliche. Con i piedi nel presente ma la testa irrimediabilmente spersa nel passato, neanche fosse il protagonista della serie "Life On Mars".
Ristrutturata la line-up su quattro elementi (Ian Peres alle tastiere, Aidan Nemeth alla chitarra ritmica e Dave Atkins, polistrumentista e produttore che viene dall'hip-hop alternativo, alla batteria) e affidata la produzione a uno specialista di psichedelia e impatto muscolare come Alan Moulder (già con Smashing Pumpkins e Nine Inch Nails, ma anche, agli albori, My Bloody Valentine e Jesus And Mary Chain) con "Cosmic Egg" Stockdale punta tutto su un suono più aspro, quadrato, sabbioso, con riff dinosaureschi e foschia distorsiva ad ampie manciate.
La nuova veste più sporca e vissuta si lascia preferire rispetto a quella scolastica dell'esordio, ma dal punto di vista compositivo il risultato finale, pur non discostandosi molto dal solito vademecum sabbath/zeppeliniano, perde qualcosa in freschezza ed efficacia rispetto all'omonimo, apprezzabile, fors'anche oltre i suoi meriti effettivi, proprio perché così spudorato e naif.
Mancano, inoltre, almeno in prospettiva, hit potenziali del calibro di "Woman" o "The Joker And The Thief" e la scrittura è, salvo qualche eccezione, meno easy di quanto ci si potesse aspettare da un gruppo intenzionato a mantenere al massimo voltaggio le luci della ribalta improvvisamente accesesi su di loro non più di 3-4 anni fa. Pur senza rinunciare ad episodi più estroversi come l'astuto groove da danza mediorientale nel ritornello di "New Moon Rising", le power ballad di prammatica come "Far Away" (con un giro di chitarra che sembra presto in prestito ai Pumpkins di "Siamese Dreams" declinato in chiave acid-roots e un'aria cantabile abbastanza contagiosa) e "In The Morning" (agrodolce e vagamente beatlesiana nelle armonie vocali, come dire: non fidarti di qualsiasi cosa nata dopo il 1973).
Per il resto, scusate la ripetizione ma per parlare di un disco ripetitivo a volte occorre ripetersi un po', i soliti standard sabbathiani - alternando accelerazioni quasi stoner, "California Queen" e rallentamenti panzer blues, l'ottima title track - o zeppeliniani (l'allucinata e salmodiante "10,000 Feet", anch'essa un ottimo pezzo, tutto sommato), qualche auto-citazione (il rave-up iniziale di "Pilgrim" ricorda molto quello di "Woman"), qualche caduta di stile ("White Feather": anthem un po' disinibito, glam e cafone quanto potevano esserlo i Kiss, che non si capisce se è una novelty o ci stanno seri, ma stona comunque col resto).
Niente di nuovo a giro d'orizzonte per il capitano Stockdale, dunque. I suoi Wolfmother assomigliano ad allievi modello che amano i classici e li recitano con ardore genuino e incrollabile passione ma mettendoci davvero poco di suo. Più o meno quello che ci s'aspettava da loro. Per chi sa accontentarsi, comunque, il compito in classe è tutt'altro che spregevole.
23/10/2009