L'album di debutto "I Am The Fun Blame Monster" era la cristallina sperimentazione di una nuova grammatica, che attraverso l'ausilio di tecnologie informatiche (vedi l'ormai famoso software Deeler), creava un rock artificiale, geometrico e completamente scevro di chitarre.
"Friend Or Foe" era invece l'approdo a un suono più corposo e stratificato, quanto ricco di architetture più dense e variegate. Una sperimentazione più massiccia e dal risultato meno emozionale e incisivo, quanto cervellotico seppure nella ferma convinzione di trovarsi al cospetto di una band dotata di risorse raffinate e incredibile tecnicismo da studio.
È innegabile pertanto che a distanza di quattro anni dal loro ultimo lavoro, ci fosse una non trascurabile attesa nei confronti di questo fantasioso ed eclettico trio di Portland.
Nella discografia dei Menomena, "Mines" rappresenta un ulteriore coraggioso passo avanti verso l'esplorazione di mondi sonori mai limitatamente circoscritti al solo ambito rock, inteso nella sua concezione più classica. L'album si presenta, infatti, ricco di contaminazioni e avvincenti incroci tra elementi alt-rock contemporanei (dagli Arcade Fire agli onnipresenti Tv On The Radio, fino a Radiohead, Elbow e Wild Beasts), psichedelia sixties (Traffic), progressive rock melodico á la Genesis, derive jazz e curioso piglio world, tra spunti reggae e pulsazioni etniche che guardano ancora una volta a Peter Gabriel.
Nel loro continuo spostare l'asticella, i Menomena tirano nuovamente fuori dal cilindro un album tanto ambizioso quanto compatto e omogeneo, che non lascia nulla al caso, evidenziando ancora l'originalità e la solida personalità di una band che, pur nei numerosi riferimenti, mantiene uno stile proprio e al momento imitabile da poche altre similmente virtuose.
Ogni brano di "Mines" pare gelosamente rinchiuso nel suo microcosmo, tra mutazioni fenomeniche, asimmetrie, dettagli in continuo rivelarsi, in un coinvolgente e convulso magma emozionale intriso di mistero, pathos, epicità, tra matematiche alternanze di pause liturgiche e movimento turbinoso nella sua potenza melodica. Strati e substrati sonori in penetrante divenire, metronomiche successioni di loop e l'affascinante illusione uditiva di avere di fronte un trio che suona come un'orchestra durante una moderna jam session.
Il disco parla al cuore nei brani dalla struttura più semplice, come nell'opener "Queen Black Acid" - brano sofferto, sinuoso e raffinato nel suo dolce esitante incedere - o nell'ideale congedo di "INTIL", ove protagonista è ancora l'intima voce di Knopf in una delicata nenia pianistica che culla e rasserena l'animo.
Sprigiona invece tutto il suo epos in brani come "TAOS", massiccio art-rock in continua combinazione di incastri sonori sghembi e impetuosi, o la sorella gemella "BOTE", elettrizzante nelle parti in sax e in quel suo groove un po' scanzonato ed effervescente, che raggiunge il suo convulso climax in tempestose sferzate chitarristiche.
"Killemall" e "Oh Pretty Boy, You're Such A Big Boy" - probabilmente gli apici del disco - rappresentano momenti di rara intensità emotiva, tra ascensioni pianistiche vertiginose e sinistre e coinvolgenti esplosioni vocali e strumentali.
Ma l'abilità di emozionare e travolgere è propria anche di brani apparentemente dimessi come "Tithe", "Dirty Cartoons" e "Queen Black Acid", assonnati quanto profondi lamenti, ricchi di disorientamento decadente e atmosfere notturne.
La sperimentazione più psichedelica e ipnotica del gruppo è espressa nelle ritmiche nervose e pulsanti di "Lunchmeat" e nella lipsiana e aliena "Sleeping Beauty".
"Mines" appare in ogni suo brano la matura e convincente produzione di un gruppo ormai pienamente consapevole delle proprie possibilità, in un affascinante e riuscitissimo connubio armonico tra sperimentalismo e profondità melodica.
14/08/2010