Nel volgere di pochi anni, l'appena ventitreenne Ólafur Arnalds è passato da un'esperienza come batterista in una misconosciuta band metal e dall'autoproduzione del suo primo "Eulogy For Evolution" a stella nascente della musica islandese più suggestiva, circondato da innumerevoli attenzioni e ormai definitivamente pronto per il grande salto tra i migliori interpreti di quelle raffinate propaggini dell'indie-rock, protese verso retaggi classici e ispirazioni cinematiche.
Proprio da una pellicola - nella fattispecie "Le armonie di Werckmeister" dell'ungherese Bela Tarr - il giovane compositore ha tratto lo spunto concettuale per questo suo secondo attesissimo album, che fa seguito ai vari "assaggi" offerti nell'ultimo biennio: "Variations Of Static", "Found Songs", "Dyad 1909". L'inesorabile successione della luce al buio, il sole e la terra (sólin e jörðin, ai quali sono dedicati i primi due brani del lavoro) rappresentano i cardini intorno ai quali ruotano le composizioni di Arnalds, finora mai così dense e dotate di un suono reso "pieno" probabilmente anche dalla coproduzione firmata da Barði Jóhannsson (Bang Gang, Lady & Bird).
In parallelo, è proprio l'universo sonoro di Arnalds ad essersi ampliato, per attestarsi su un nuovo equilibrio, costituito non solo da minimalismo pianistico, ma anche da orchestrazioni più ricche, incursioni ritmiche e cammei di chitarre ed elettronica, che vi conferiscono una significativa grandiosità, spostandone altresì il mood da quello di una contemplazione nostalgica a un luminoso messaggio di speranza.
I poco oltre quaranta minuti di "...And They Have Escaped The Weight Of Darkness" traggono sempre abbrivio da note di pianoforte intense e cadenzate, la cui semplicità non è certo sinonimo di banalità quanto piuttosto funge da tessuto armonico sulle cui fragili suggestioni si innestano gradualmente prima aperture ritmiche e orchestrali ("Tunglið"), poi derive chitarristiche che tratteggiano scenari ultraterreni di floydiana memoria ("Gleypa Okkur") e infine filmici crescendo sigurrosiani nei quali l'essenzialità pianistica si trasfigura in grandiosità da band ("Hægt, Kemur Ljósið").
Quasi tutte le composizioni raccolte nel disco seguono un itinerario di progressiva stratificazione e aggiunta di elementi, dischiudendo ricchi bozzoli emozionali, dai quali stillano dolci lacrime sotto forma di rincorrersi d'archi o di crescendo che tradiscono lontane fascinazioni post-rock, senza tuttavia mai ricadere in canovacci ormai decisamente abusati.
Sono infatti ancora l'ariosa essenzialità del pianoforte e il suo cristallino dialogo con il violino a costituire lo scheletro portante di brani il cui flusso avvolge in un abbraccio capace di condurre in una dimensione di mera percezione, che induce a lasciare piacevolmente in secondo piano qualsiasi considerazione formale o tecnicista. E se anche a livello di efficacia evocativa il giovane Ólafur Arnalds non può ancora paragonarsi al più maturo connazionale Jóhann Jóhannsson (al quale è ormai ripetutamente accostato), "...And They Have Escaped The Weight Of Darkness" non fa altro che confermare il suo talento, regalando scorci paradigmatici di una declinazione post-classica, dal cuore così vicino alle sensibilità latamente "rock" da lasciar presagire un'imminente e meritata progressione su vasta scala della popolarità dell'artista islandese.
10/05/2010