Composto nello stesso lasso di tempo del magnifico "Fordlândia" e inizialmente distribuito in poche copie in vinile nel corso del tour statunitense tenuto dal compositore islandese a fine 2009, "And In The Endless Pause There Came The Sound Of Bees" costituisce un'ideale continuazione di quell'opera, che aveva incantato applicando ombrose orchestrazioni a un profondo spirito panico.
Parzialmente diversi sono invece il contesto e la stessa destinazione delle composizioni qui raccolte, destinate alla colonna sonora di una pellicola d'animazione realizzata dal disegnatore Marc Craste e ispirata a un libro di Helen Ward, "Varmints", e in quella sede solo parzialmente utilizzate, in ragione dei venticinque minuti scarsi di durata del cortometraggio a fronte dei quaranta che costituiscono il disco.
Il connubio tra musica e immagini - approdo quanto mai naturale per uno come Jóhannsson - ricorre nei brani di "And In The Endless Pause There Came The Sound Of Bees", attraverso l'alternanza tra compunto minimalismo, ampie orchestrazioni e immersioni in profonde saturazioni ambientali. "Varmints" non è infatti un semplice cartone animato per bambini, rappresentando invece il veicolo per un messaggio ecologista a più ampio spettro, incentrato sui temi dell'incuria ambientale e dell'urbanizzazione indiscriminata, di tutta evidenza molto vicini alla spiccato spirito panico già palesato dall'artista islandese in "Fordlândia".
I tredici brani e frammenti estrapolati dalla colonna sonora e riuniti in questo lavoro seguono fedelmente la narrazione e il mood dell'opera per la quale sono stati realizzati, fin dalla luminosa "Theme", piéce pianistica rifinita dagli archi, che accompagna la danza di un piccolo roditore in un prato: l'atmosfera è limpida e serena, il respiro armonico ampio, ma all'orizzonte si scorgono nubi nere e in lontananza si odono cupi tuoni. La minaccia incombente è appunto rappresentata dalla distruzione dell'ecosistema ad opera degli interventi umani, destinati a trasformare l'iniziale quadretto bucolico nell'anonimato di asettiche costruzioni urbane.
Tutto il disco è attraversato sottotraccia da questo senso di pericolo latente, che dapprima avanza con passo deciso, contornando di spettrali vocalizzi ampie aperture orchestrali ("City Building"), poco dopo annega in drone e sinistri rumorismi dark ambient note di piano che danzano nell'oscurità ("The Flat"). L'alternanza tra orchestrazioni ariose e inquiete incursioni ambientali, tra spiragli di luce e dense tenebre, viene poi scandagliata nelle sue varie forme lungo tutto il corso del disco, che ora recupera florilegi cameristici dalla tensione inespressa (nell'aggraziata "Pods"), ora inclina verso una desolazione elettronica sulla quale l'orchestra di "Dying City" e il cello solo di "Escape" disegnano cattedrali di suono appena infiltrate da esili disturbi e toccanti vocalizzi.
La conclusione di questo tormentato viaggio musicale lascia comunque spazio alla speranza, riaprendosi alla luce della grandiosità sinfonica di "End Theme" (brano più lungo del lotto, con i suoi oltre sei minuti), ideale coronamento di una narrazione fortemente espressiva ma aliena da cadute in un descrittivismo a buon mercato ed ennesima conferma della sensibilità di un autore capace di riecheggiare con disinvoltura arrangiamenti e partiture di chiara matrice classica (Gorecki, Prokofiev), cimentandosi al contempo con gli immaginari processi elettronici di un Fennesz o di un Tim Hecker. Oltre l'ambient music, distante dalle calligrafie cameristiche, anche con quest'opera soltanto in apparenza marginale rispetto alle più articolate "Fordlândia" e "Virðulegu Forsetar" Jóhann Jóhannsson si avvicina sempre più all'archetipo del perfetto compositore post-classico.
12/04/2010