Come ci sono riusciti. Più facile a dirsi che a farsi. Ventitré anni ininterrotti di carriera, un'eternità per un gruppo hip-hop (solo leggende viventi come Beastie Boys o Public Enemy possono vantare cursus più longevi e prestigiosi), sempre ad altissimi livelli. Dagli esordi all'alba del rap alternativo e della daisy age (“Organix”, il loro primo album, è del 1993), passando per il successo planetario di “Phrenology” (in gran parte dovuto al singolo “Seed 2.0” che trainò un album comunque superbo), fino a diventare una vera istituzione, un punto di riferimento. Per quella loro inimitabile miscela d'hip-hop strumentale, duro, di strada (“the streets of Philadelphia”, come direbbe il Boss), eppure forbito, contaminato, attento alle radici, naturalmente, ma gravido di sviluppi futuribili. Capace di guardare contemporaneamente all'alt-rock, al nu-soul, al jazz e al post punk. Di reinventarsi ogni volta in modo creativo e spiazzante. Fino ad arrivare soli al traguardo, mentre gli anni passavano, i componenti cambiavano, i gruppi insieme ai quali avevano cominciato cedevano sotto il peso dell'erosione stilistica o delle carriere soliste e altri prendevano il loro posto, gravitando nell'orbita magnetica di quel collettivo chiamato The Roots (Questlove, leader e batterista della band, ha il merito, fra l'altro, di aver lanciato e prodotto i primi dischi di una certa Erykah Badu).
Oggi, a due anni da distanza da “Rising Down”, uno dei capitoli più felici della loro intera discografia (a titolo personale: miglior album “hip-hop e dintorni” del 2008 e fra i primi venti di quell'anno in assoluto), tornano belli carichi con un nuovo capitolo intitolato “How I Got Over”. Due anni in cui sono cambiate tante cose dentro e fuori il gruppo: Obama è succeduto a G.W., nuove ferite hanno preso il posto delle vecchie cicatrici lasciate dalle Torri Gemelle, i Roots sono diventati delle star televisive come backing band ufficiale del “Late Night With Jimmy Fallon”, il loro storico bassista Hub (Leonard Hubbard) s'è fatto da parte dopo quasi vent'anni di eccellente militanza e via discorrendo. E quindi un po' è cambiata anche la musica: meno tirata, cupa, rabbiosa del predecessore, più rilassata, intimista, riflessiva. Anche se lo stile rimane quello, sempre prezioso e riconoscibile: l'essenzialità del formato rap-canzone e l'intenso fervore ritmico (benché il nuovo bassista, il pur bravo Owen Biddle che viene dal jazz fusion, non spinga e non “riempia” come il mitico Hub) qui s'accompagnano ad armonie smooth e soulful, che guardano molto alla black “progressiva” degli anni 70, conservando un retrogusto notturno, languido, psichedelico e un'inedita propensione per la melodia. Raramente, infatti, nei loro dischi si sono ascoltati tanti ritornelli cantati e tanti ospiti famosi off rap (qui, su tutti, Joanna Newsom e i Monsters Of Folk).
Fluido ed elegante, il songwriting di Quest, Black Thought e compagnia, si conferma comunque di livello superiore. Ed è quello che più conta. Così se la title track è il loro classico singolo, ultra-catchy ma con classe, brani ambiziosi come “Now Or Never”, “Doin'it Again” (splendidi i pattern di batteria) e l'avvolgente “Walk Alone” chiamano in causa, con mano sciolta e felice, la buonanima di Curtis Mayfield; “Dear God” è un altro fiore all'occhiello, un vero roots-rap, nel doppio senso del termine, una sorta di preghiera laica e ambientalista suggellata dalla voce di Jim James (My Morning Jacket e, in questo caso, Monsters Of Folk), come pure la retro-jazzata “The Day”, con quell'arpeggio scarno di chitarra e le soffici cortine di tastiere vintage (del sempre impeccabile Kamal Grey), il piacevole esotismo di “Right On” con il vocal di Joanna Newsom, sovrapposto a scratch tenui come acquerelli, che introduce un non so che di lontano oriente sugli staccati oldschool della base, e l'impasto nostalgico, onirico e rarefatto di “Radio Daze”.
Un buonissimo lavoro, questo nono album dei Roots, che nel finale ci riserva anche un bel graffio street e martellante alla vecchia maniera: la tagliente “Hustla” col basso elettrificato, enfio e rugoso proprio come lo suonava Hub.
Cento di queste radici.
02/07/2010