"Victory!"
Gioia e brio nel grido di una band passata per l'infanzia à-la Dos Passos da discoli di Brooklyn, per l'adolescenza trascorsa a oliare gli ingranaggi notturni di New York, allorché i Walkmen si trovano a salpare, una mattina, dalla baia dell'Hudson. La caravella meccanica che hanno assemblato nel loro seminterrato di fiducia è pronta ad accompagnarli in un viaggio a ritroso verso origini che parevano nascoste nel loro bagaglio strettamente legato ai grandi americani, Dylan in particolare: le fragranze odorose di un Mediterraneo a lungo sospirato accolgono la valigia dei Nostri, sigillata con lo spago.
"Lisbon", il sesto disco di Leithauser e soci, ha un che di vacanziero, infatti. Più che cogitazioni prorompenti, a cavalcioni di un pennone della Grande Mela, i pezzi dell'album paiono sognanti serenate a una vitalità di limpido languore agostano, appollaiati a un davanzale sporgente su una caletta al tramonto (la bella "Juveniles"). La cifra stilistica, allo stesso tempo, non si è mossa di molto: la voce di Leithauser, animale da palcoscenico, è ancora in grado di scagliare il proprio raglio viscerale a inerpicarsi sulle vette indicate dal lancinante riverbero chitarristico di Paul Maroon.
Il guinzaglio del capace istinto percussivo di Matt Barrick, inoltre, è sempre saldo: è in parte merito suo se questo "Lisbon" sa mantenere un cammino eretto e senza sbandature, dando la misura del ruvido garagismo della band newyorkese ("Angela Surf City").
Bizzarre marcette di fiati roboanti, al limite del campionamento, rappresentano la colonna sonora di questo sbarco immaginario: "Stranded". È sempre puntuale Hamilton Leithauser, nel lasciar sgorgare la propria vocalità ammaliante come se fosse un prodotto germinato dai propri sussulti ventricolari: è davvero un crooner nato (la beachboysiana "Torch Song", "While I Shovel The Snow", la title track), e gliene va dato atto. Eppure, nello scorrere le pagine di questo nuovo lavoro, emerge incalzante il dubbio che non sia uno di quegli artisti - e, con lui, la band - a cui è stata fornita una e una sola cartuccia da sparare. "In The New Year" non è stata solo una delle più belle canzoni del decennio passato: ha rappresentato la summa di tutto ciò che l'universo Walkmen rappresenta, condensato e amplificato in un buco nero che ancora emette luce, invece di risucchiarla. Ogni volta che inizia uno dei loro caratteristici valzer metropolitani ("Victory"), in cui chitarre e batteria paiono imitare il ticchettio tarantellato di cose e persone ("Blue As Your Blood"), il pensiero corre a quella corsa in un Central Park innevato.
I Walkmen cercano in "Lisbon" di aggirare l'ostacolo, presentando una ragionevole mistura di atmosfere: il veliero agghindato di luci nel balletto revivalista di "Woe Is Me", il tip-tap pensieroso di "All My Great Designs", il rapimento di un Fred Astaire nella neve di "While I Shovel The Snow". Cose che rendono il disco affascinate fino in fondo - sebbene melodicamente, lo sappiamo, i nostri non siano proprio dei maestri - ma non riescono a mettere in ombra il poderoso riflesso di quella splendente singolarità, così attraente e così pericolosa per il futuro della band.
27/08/2010