Inglese d'origine, ma fin dall'infanzia neozelandese d'adozione, Hollie Fullbrook può annoverarsi nello sterminato panorama delle voci femminili che, fedeli all'ideale less is more, dispensano delicate melodie e trame acustiche essenziali.
Chitarra, pianoforte e corde di violoncello pizzicate costituiscono lo scheletro delle undici canzoni di "Some Were Meant For Sea", album che per la prima volta vede il progetto solista della Fullbrook, Tiny Ruins, affacciarsi a una distribuzione internazionale - europea in particolare - dopo l'omonimo self released del 2009 e le collaborazioni con Lieven Scheerlinck, aka A Singer Of Songs, con il quale ha condiviso il mini-album "Little Notes".
Quella che si presenta alla sua seconda e più significativa prova sulla lunga distanza è dunque un'artista ormai già rodata, fermamente decisa ad affermare il proprio profilo espressivo, rifuggendo i cliché del cantautorato al femminile attraverso una raffinatezza interpretativa che si mantiene ben distante dai rischi di stucchevolezza. Al contrario, la voce della Fullbrook si mostra al tempo stesso vellutata e ruvida, aggiungendo un tocco fumoso a melodie di fragile linearità, mentre le soluzioni sonore, seppure estremamente scarne, restituiscono il senso di graduale movimento insito nel concept di molti brani e non a caso riassunto nel titolo del disco.
Il risultato è un lavoro impostato su pacate atmosfere invernali, sostanzialmente privo di picchi di pronto impatto e proprio per questo poco adatto a un ascolto occasionale. Addentrandosi nelle pieghe dei suoi brani, "Some Were Meant For Sea" rivela invece i tratti salienti della cantautrice neozelandese, mettendo in luce l'inquietudine della sua poetica e l'eleganza delle sue interpretazioni. Basti prendere, tra le tante, la ballata al piano "Little Notes", con le sue armonie evocative che avvolgono interrogativi privi di risposta, la dolce nostalgia di "Birds In The Thyme", l'arida solitudine di "Just Desserts" e la cullante "Running Through The Night", probabilmente la canzone più compiuta del lotto, nella quale la Fullbrook si dimostra capace di un registro più deciso, malinconicamente seducente.
D'altro canto, la sostanziale uniformità stilistica degli undici brani non sempre ne lascia affiorare l'identità ben definita riscontrabile nei testi, diluendo la tracklist di "Some Were Meant For Sea" in una sequenza di atmosfere alquanto uniformi e asettiche, un po' come quelle della vecchia scuola dell'Australia del Sud nella quale il disco è stato registrato. Ed è questo, in fondo, che distingue un lavoro capace di elevare l'intimismo a compiuta modalità espressiva da un semplice album raccolto e minimale, che lascia solo intravedere le indubbie qualità di una artista; "Some Were Meant For Sea" può al momento ascriversi a quest'ultima categoria, così come Hollie Fullbrook a quella delle valide interpreti femminili alle quali, per convincere appieno, manca però ancora un quid di personalità e maturazione di scrittura (si veda, ad esempio, alle voci Holly Throsby o Laura Marling).
18/08/2011