God damn you mountain
give me back my t-shirts
(da "God Damn You Mountain")
Un
Oldham ebbro e disadattato, un
Johnston rurale: è difficile catalogare il mondo di Seamus Fogarty, incastrarlo a forza in una categoria, in una sensazione. Sensazioni che pervadono questo suo esordio, "God Damn You Mountain", e raccontano di un'infanzia perduta, e con questa l'innocenza che guida lo sguardo oltre la periferia e la solitudine - possibilmente verso una strada "dove crescono i meli", come in "Appletrees".
Stregato
James Yorkston in una serata a Kilkenny, Seamus è stato presto incluso nel collettivo Fence, ambiente d'elezione per il cantautore irlandese, con compagni come
King Creosote e lo stesso Yorkston.
La musica di Fogarty è però caratterizzata da forti componenti personali, da un afflato unico e vivido, che il Nostro ha sviluppato in ben due anni di composizione. Dall'ansioso e immaginifico country-blues di "By The Waterside", solcato da rivoli carsici e bizzarramente contrappuntato di strumenti che si fanno rumori - o viceversa - al curioso affastellarsi di ingranaggi di "The Undertaker's Daughter", a conquistare è l'istinto naturalistico di Seamus, più che il suo impianto concettuale.
A Fogarty interessa la vita, in tutte le sue sfaccettature, e non fa mistero di questo con un approccio stupito e disincantato al tempo stesso - si veda il testo della caustica "The Question".
Il risultato è un disco di grande intensità, sospeso in una vertiginosa contemplazione, come nel suggestivo concatenarsi di rumori e di semplici
riff dell'invocazione di "The Wind", un
field recording dell'anima che trova pieno compimento nell'epica sterminata di "Rita Jack's Lament", trionfo di un
fingerpicking di purezza
Fahey-iana, per quanto destrutturata.
È una poesia maldestra e commovente, quella di "God Damn You Mountain", una cronistoria mutilata e trasfigurata, secondo le correnti di un'irresistibile, trascendente tensione.
22/05/2012