Era un po’ quello che, almeno da qui, si chiedeva ai Woods: mettere da parte le velleità kraut e psichedeliche, quei vezzi di dieci minuti inseriti a forza tra i motivetti “carini” impostati dal falsetto così hipster di Jeremy Earl. Ma, ora che il tutto è successo, si scopre che il sogno era migliore della realtà, e i Woods una band come tutte le altre.
“Bend Beyond”, settimo disco di una band che dal 2007 pubblica un disco all’anno, non è un nuovo “At Echo Lake”, perché non rappresenta il condensato di un’esperienza di backdoor-pop psichedelico e da cassetta in qualcosa di più completo e maturo. Certifica semplicemente la definitiva normalizzazione della band, al di là dell’appena percettibile patina sperimentale che ancora li contraddistingue.
Insomma questo nuovo lavoro è più un disco da Sub Pop, che da Woodsist, un collage di canzoncine che pescano ormai dal folk-rock e dal country, piuttosto che dalla West Coast, con qualche citazione di Dylan (“It Ain’ Easy”), dei Byrds, finanche dei Doors (“Find Them Empty”).
È già l’iniziale title track a tracciare la rotta, con quel gusto psichedelico insinuante che è marchio di fabbrica della band, in una canzone però che ha quel tanto di meccanico, di schematico da rendere inefficace l’espediente di far seguire il ritornello finale al lungo intermezzo psichedelico.
Qualche segno di vita per la verità c’è, soprattutto quando i Woods tentanto di alzare un po’ il tiro rispetto a canzonette come “Cali In A Cup”, in particolare in “Size Meets The Sound”, pezzo finalmente provvisto di una qualche volontà espressiva, e nei CSN di “Impossible Sky”, una delle poche tracce in cui trapela un’emozione.
Quest’ultima è quella che è un po’ sempre mancata, ai Woods: esperti ormai nel giocare con gli accordi, ma ancora non nel “fare sul serio”.
24/09/2012