The only words I’ve said today are ‘beer’
And ‘thank you’
‘Beer’, ‘Thank you’
da “The Sing”
Solo un grande artista come Bill Callahan potrebbe inserire versi del genere in una canzone e non farli apparire forzati, la ridicola produzione di una mente alterata – che ripete incessantemente “Beer” e “Thank you”, lasciando trapelare ironia e divertimento con risaputa sobrietà. Se esiste un’arte placida e sorniona, Callahan ne è lo stregone, e in “Dream River” non centellina l’uso delle arti mostrate nel precedente “Apocalypse”.
Le vesti più classiche di “Sometimes I Wish We Were An Eagle” stavano forse un po’ strette a Bill, che però spande per quest’ultimo un calore, un trasporto che ha spinto l’etichetta a definirlo il suo lavoro più appassionato (l’infervorata “Spring”, la suadente “Small Plane”, il confortevole e dinoccolato crooning di “Winter Road”).
Pur nella differenza di impostazione e di stile, c’è una certa affinità con l’Iron And Wine di quest’anno: arrangiamenti tenui, vagamente jazzati in alcuni frangenti (“Seagull”), sui quali il baritono di Callahan deposita i suoi mantra ossessivi, insinuando immagini ed epifanie col suo saggio brontolio.
Una consapevolezza espressiva che filtra in ognuno dei ricami strumentali del disco, probabilmente anche più a fuoco che nelle jam di “Apocalypse” (come nell’interlocutoria e rivelatoria “Ride My Arrow”, tra dichiarazioni esistenziali e metafore ornitologiche), consolidando l’aura che lo circonda – il Cormac McCarthy del cantautorato?
Forse troppo obliquo – certo non un ascolto privo di ruvidità, nonostante il tono benevolo – per suscitare le emozioni di “Sometimes...”, “Dream River” sa sedurre e trasportare, anche se in modo simile a quello del protagonista di “The Sing”: “looking out a window that isn't there”.
27/09/2013