Sono impazziti i Chapel Club: questa la premessa spontanea che sorge nell’approcciarsi all’atteso sophomore della band londinese. E badate, non tanto perché l’epica shoegaze di “Palace” è ormai (sigh!) un lontano ricordo, quanto perché raramente in tempi recenti abbiamo assistito a una così accanita distruzione della propria identità artistica originaria. La svolta synth-pop non è una novità per una band indie: carta che spesso viene utilizzata per diversificare il proprio sound, ha letteralmente rivitalizzato le carriere di Editors e Franz Ferdinand, per citare i due casi più noti.
E’ decisamente più raro invece che una band, dopo appena due anni, arrivi a definire il proprio esordio “una sbobba per nostalgici post-punk pieni di dopamina”. Soprattutto quando questo esordio, anche da queste pagine, era stato lodato per aver costruito un impianto epico e drammatico, dando nuovo vigore al suono shoegaze. Probabilmente la band non ha retto il peso di un’accoglienza a dir poco tiepida (liquidato sbrigativamente dalla stampa britannica, ignorato del tutto negli Usa) e di un riscontro commerciale alquanto deludente (solo n° 31 nella classifica inglese).
La sensazione che si prova ascoltando “Good Together” è allora quella può darci un amico che fa il simpaticone, ma poi ci respinge con stizza quando gli ricordiamo i bei tempi andati. In effetti, a dispetto dell’isteria pre-release, questo nuovo lavoro suona decisamente più solare e rilassato rispetto al debutto. E’ un disco perfetto per l’estate, sempre teso alla ricerca di spensieratezza nel songwriting e di freschezza in fase di produzione.
Tutto bene, allora, se non fosse che nessuno si aspettava questo da loro. Qua e là la band sembra semplicemente allinearsi alle tendenze attuali senza la giusta convinzione: e così “Sequins”, in odor di Vampire Weekend, impallidisce di fronte a qualunque pezzo del loro ultimo album; altrove emergono rimandi alla scena indie-electro dello scorso decennio (Hot Chip, MGMT), tra drum machine gommose e tastiere retrò.
Il baritono poderoso di Bowman è un elemento di cui non vi è più traccia: falsetti striduli e voci filtrate la fanno da padrone. Vedi, ad esempio, il bubblegum simil-rappato del singolo “Shy”, danzereccio e godibile, ma quasi parodistico messo nelle mani di una band che prima faceva tutt’altro. La stessa sensazione si prova in altri passaggi del disco (“Fruit Machine”, “Sleep Alone”) ovvero, tutto bello, se facciamo finta che sia un altro gruppo.
Lo scarto tra “Palace” e “Good Together” è così profondo che è impossibile leggere quest’ultimo come la prosecuzione di un discorso: semmai, la sensazione che suggerisce è “cancelliamo il passato e ripartiamo da zero”. Per noi, invece, non è possibile azzerare la memoria, dimenticandoci del tutto ciò che ci aveva fatto apprezzare così tanto i Chapel Club.
Il lascito più significativo di questa nuova direzione è comunque costituito dai dieci minuti epici della title track: prima parte in odor di inizio 00’s, voce filtrata su un tappeto sintetico arioso e nostalgico; poi la fuga house della lunga seconda parte, roba da perderci i sensi. Altro brano pregevolissimo è “Scared”, con la sua base quasi folktronica, un tripudio di melodia che si appiccica in testa all’istante.
Le reazioni della stampa britannica a “Good Together” evidenziano un lievissimo miglioramento rispetto a “Palace”, ma siamo lontani da qualunque tipo di acclamazione. Se il loro scopo era ottenere un maggiore consenso, è evidente che il gioco non sia valso la candela. Viene infatti da chiedersi a cosa sia servito rifare da capo la propria immagine per alzare di mezzo voto i vari giudizi. La speranza è che la band a questo punto non si perda, come capita spesso nello spietato ingranaggio della scena indie britannica.
Non chiediamo di tornare tout-court alle atmosfere dell’esordio, ma quantomeno si spera di non ritrovarsi di nuovo sperduti all’ascolto dei loro futuri lavori.
24/06/2013