Tra i gruppi su cui gli appassionati di rock britannico di ogni età puntano di più in questo frangente dell’anno, un posto del tutto privilegiato spetta senza dubbio ai londinesi Chapel Club. Che sono peraltro i primi a calare sul tavolo da gioco le carte in loro possesso. Se la loro prima apparizione sull'ambitissima rubrica "Radar Band" di Nme data addirittura dicembre 2009, c'è da dire che il settimanale albionico ha poi finito con l'accogliere piuttosto tiepidamente l'album vero e proprio uscito in questi giorni, preferendo spostare l'attenzione su nuove band in rampa di lancio come Vaccines e Brother, spennellate sulla doppia copertina di un roboante numero di qualche settimana fa (molto esplicito il giudizio di un critico autorevole come Liam Gallagher, che di guerre tra band con tutta evidenza qualcosa ne sa e che ha definito i primi noiosi e i secondi, letterale, "fottuti ragazzotti snob con qualche tatuaggio"...).
I Chapel Club non sono esattamente dei novizi. Del resto non si approda per caso all'etichetta scopritrice degli Horrors (sussidiaria peraltro della Universal) e ad un produttore di prestigio indiscutibile come Paul Epworth (basta dare una scorsa rapida al suo palmares di protetti). È infatti da un anno e più che il quintetto guidato dal segaligno Lewis Bowman semina singoli di notevole interesse e concerti sempre più affollati e chiacchierati su e giù per il regno. Singoli che ritroviamo tutti perfettamente allineati in "Palace" (probabilmente dal primo nome della band, mentre quello attuale deriva dalla chiesa di St. Luke, situata vicino alla sala prove del gruppo). L'etichetta più spesa dalla critica a proposito della musica di questi giovani londinesi è stata quella di shoegaze. Osservazione senza dubbio pertinente, ma non si pensi alle ripide muraglie di rumore bianco innalzate dai più onirici My Bloody Valentine (di cui pure i nostri si dichiarano con orgoglio estimatori incalliti) quanto piuttosto al vento atlantico, freddo e tagliente, che spazzava le canzoni dei primi Ride, impregnandole di nebbie introspettive (ricordate "Dreams Burn Down"?), o anche all'afflato epico di altre interessanti compagini dell'epoca, oggi a dir il vero un po' sottostimate, come i Catherine Wheel o gli Adorable.
Canzoni estremamente evocative e ben scritte come "All The Eastern Girls", "Surfacing", la bellissima "Paper Thin" o "The Shore" vanno in questa direzione, grazie allo spesso stratificarsi di trame policrome di chitarra distorta, che si increspano e rifrangono in un vortice impetuoso di forme e colori cangianti, sfondo perfetto per il recitato solenne e poetico del cantante Bowman.
In altri momenti - ad esempio in "Blind", nel bel singolone "O Maybe I" o anche in "Five Trees" - la scrittura e soprattutto la peculiare sensibilità melodica della band tradiscono un significativo debito di ispirazione (pagato comunque con credibile scioltezza) nei confronti di certa new wave più buia e metropolitana, con il bavero dell’impermeabile alzato e i denti ben stretti, e a venire in mente sono soprattutto le sagome ombrose di Echo & The Bunnymen, Modern English, Danse Society e Chameleons.
Nell'edizione a tiratura limitata dell'album è stato inoltre accluso il cosiddetto "Wintering Ep", già edito autonomamente lo scorso anno, che conferma in maniera abbastanza netta l'impressione più che positiva sulle potenzialità complessive della band, grazie a una canzone di prima grandezza come "Roads" (era da tempo che un gruppo inglese non sfoderava un'eleganza così naturale e spiccata) e, soprattutto, agli otto minuti di spleen suburbano con gli occhi puntati dritti al cielo di "Widows", sorta di brano-summa che non si dimentica troppo presto.
Questi Chapel Club sostituiscono al sentimentalismo emo melenso e vagamente alla "Twilight" dei White Lies la potenza di una visione romantica e personale, ricercata e colta nei riferimenti, che sa imporsi con grazia e sorprendente equilibrio stilistico.
Speriamo soltanto che non vendano pure loro un milione di copie. Almeno non subito.
01/02/2011