Davvero strano il percorso artistico di questa band, che in poco meno di un lustro, con tre dischi all’attivo, ha finito per abbracciare generi diversi, partendo col punk gotico del primo disco, passando per sonorità wave di connotazione epico-psichedelica, fino alle derive edulcorate di certo new romantic/synth-pop.
Un'altra curiosità è rappresentata dal fatto che, a dispetto del nome, i Modern English finirono per passare quasi inosservati nella loro Inghilterra, per poi sfondare in America senza nemmeno averci mai messo piede, grazie al singolo "I Melt With You", passato in heavy rotation dalle stazioni radiofoniche d'oltreoceano.
Siamo a Colchester nell’Essex, l’anno è il fatidico 1977, la furia dei Sex Pistols è di passaggio da quelle parti e un ragazzo di nome Robbie Grey ne viene da subito rapito. Non c’è da meravigliarsene: gli umori depressi del periodo favoriscono non poco l’esplosione del punk nelle frange giovanili e le nuove band proliferano ovunque. Nascono così i Lepers, nucleo originario della band, con Robbie Grey alla voce, Gary Mc Dowell alla chitarra e il batterista Richard Brown, ma le loro ingenue rasoiate punk non aggiungono nulla a quanto già detto dagli storici gruppi dell’epoca.
Ben presto, però, si aggiungono al nucleo iniziale il tastierista Stephen Walker e il bassista Michael Conroy: si forma così una nuova band, i Modern English, che comincia a esibirsi al Bridgehouse, il locale punk della zona, dividendo le serate e ingaggiando un’effimera rivalità con un'altra formazione, appena sorta pochi chilometri in là, in quel di Basildon: i Depeche Mode.
Nel 1980 la Limp records, piccola etichetta dell’Essex è disposta a concedere ai Modern English una chance. Viene quindi stampato il loro primo 45 giri con i brani "Drowning Man/Silent World", ma il risultato che ne scaturisce è un disco piatto, senza spunti degni di nota e per di più mal registrato.
Col crescere della frustrazione, si delinea la consapevolezza che l’unico passo da compiere è quello di un imminente trasferimento a Londra, l'unica città - secondo Grey & C. - in grado di offrire nuove possibilità di svolta a una band ancora sconosciuta.
Si trasferiscono quindi nella capitale inglese, dove ad attenderli ci sono una vita da squatter e notti trascorse in case occupate, con Killing Joke e Throbbing Gristle come "boys next door". Ma è proprio in questo contesto che la fase creativa del gruppo registra una notevole impennata.
Walker, il tastierista, racconta quando Jaz Coleman dei Killing Joke, in piena notte, con in mano un megafono, svegliava tutti urlando frasi sconnesse in toni declamatori come in preda a un delirio psicotico.
Ivo Watts Russell, boss della 4AD, crede nelle possibilità di Grey e compagni e pubblica due loro 45 giri non privi di un certo fascino malato, rispettivamente "Swans On Glass"/"Incident" (1980) e "Gathering Dust"/"Tranquillity" (1981), pezzi incendiari e compulsivi in perfetto stile post-punk, con suoni distorti e riverberati, percussioni tribali e la voce di Grey apocalittica e delirante che, anziché cantare, recita i propri testi con tono beffardo.
I pezzi vengono ben accolti dalla critica, riscuotendo persino un discreto successo nelle classifiche indipendenti. Le coordinate sono quelle tracciate da Joy Division, Bauhaus e Killing Joke, ma la band gode anche di luce propria, grazie soprattutto agli spunti vocali di Grey, che col suo cantato teatrale, maestoso ma mai ampolloso, conferisce ai pezzi un pathos di grande effetto.Nel 1981 vede la luce la prima prova su lunga distanza Mesh And Lace, onirica e inquietante, pienamente in linea con le produzioni 4AD del periodo.
La title track ci regala subito grandi emozioni con la sua vena malinconica: la tastiera si fonde col canto di Grey, percorrendo le stesse note un po’ come in "Love Will Tear Us Apart" dei maestri Joy Division, toni pacati, quindi, disposti però subito a esplodere in una spirale drammatica intensissima. "Black Houses" ci immerge in un vortice di distorsioni chitarristiche, per poi crescere con un basso ipnotico e la voce di Grey apocalittica e delirante: è un brano per certi versi assimilabile ad alcuni episodi dei Wire, quelli più "gotici" di "154", con l’aggiunta di infiltrazioni macabro-horror di chiara matrice Bauhaus.
"16 Days" parte con bordate di echi e distorsioni, voci pre-registrate e il basso che ripete ossessivamente le medesime linee, le chitarre hanno invece un effetto disturbante: potremmo definirla la gemella di "Black Houses", considerato anche che le session in studio dei due pezzi risalgono allo stesso periodo.
Il ripetersi di trame ossessive e ipnotiche, scandite da una opprimente sezione ritmica in pieno stile dark-wave, è il filo conduttore delle 15 tracce. Ma a pervadere l'opera è anche uno spirito crepuscolare e decadente, che si rispecchia in testi intrisi di malinconia ("Grief", "The Token Man") e in armonie vocali trasognate, che implodono in vertigini elettriche ("Just A Tought", "Move A Light"). Il canto intenso e profondo di Grey conferisce pathos ("Dance Of Devotion"), ma anche angoscia ("Swans Of Glass") a un sound stratificato, costruito su un affastellarsi di sibili e dissonanze. Ad aggiungere un ulteriore tocco di classe, la magnifica copertina, firmata dalla 23 Envelope, un marchio di fabbrica di un progetto artistico a tutto tondo, come quello della 4AD.
Mesh And Lace è un esordio forse ancora acerbo, ma ricco di momenti intensissimi. L’uso della voce di Grey, unito all’efficacia delle tastiere, lascia percepire le coordinate verso le quali dirigere il suono della band nel futuro.
Nonostante le lusinghe della critica, il disco non riesce a ottenere risultati di vendite altrettanto confortanti. Il culto dei Modern English a livello underground, però, continua a crescere sensibilmente.
Molto vicino al suono di Mesh And Lace, nello stesso anno, è l’esordio degli Uk Decay, "For Madmen Only": stesse ritmiche serrate e melodie cupe, con un cantante, Abbo, che sembra recitare alla maniera di Robbie Grey.
E' il momento più propizio per i Modern English. La 4AD li coccola, mentre i compagni di scuderia Cocteau Twins e Dead Can Dance non hanno ancora maturato quello stile unico che li porterà negli anni a produrre i capolavori che tutti conosciamo.
Dall’anonimo Bridgehouse, piccolo locale della loro zona, Grey & C. sono ora passati alla frequentazione del Batcave, storico locale del culto gotico londinese.
I Modern English sono in pieno fermento creativo e, a un solo anno di distanza dall'esordio, pubblicano lo splendido After The Snow, l’album destinato ad essere annoverato come il loro capolavoro. Entusiasti dell’ottimo lavoro svolto con Echo And The Bunnymen, si affidano a Hugh Jones in veste di produttore. Questi però, anziché approvare il lavoro del gruppo, mostra forti dubbi sulle loro potenzialità. Gli attriti non mancano, ma il sodalizio tra la band e il produttore ha luogo comunque. Robbie Grey e compagni vengono messi alla frusta da Jones in un duro lavoro in sala di registrazione, e alla fine lo sforzo sarà ripagato da un disco bellissimo.
Grey abbandona i toni beffardi e declamatori per un mood più riflessivo, l’intera band è cresciuta, le atmosfere si fanno malinconiche, pur conservando la vena decadente, le composizioni non più spartane, ma ricche di arrangiamenti, con il synth finalmente in primo piano, non più solito tappeto, ma strumento-principe che si intreccia con la chitarra tessendo le trame dell’intero disco.
L’apertura è affidata a "Someone’s Calling", che conserva gli accenti tribali dell’esordio, per poi assumere una connotazione epico-romantica, grazie alle tastiere e alle chitarre che disegnano nuovi orizzonti elettro-acustici. "Life In The Gladhouse" è un pezzo davvero particolare, che esula dagli stilemi cari alla band, finendo per approdare in territori dance-dub grazie a un ritornello irresistibile e a una ritmica martellante. "Face Of Wood" è un’altra perla: qui siamo vicino ai migliori Sad Lovers And Giants, con quella tastiera che evoca nostalgia e le chitarre elettro-acustiche sempre in primo piano, a disegnare nuovi acquerelli dai tratti psichedelici. Si prosegue con "Down Chorus", stupenda ballata dal taglio malinconico, che vede Grey cimentarsi in un cantato quasi crooneristico: siamo ormai di fronte a un cantante maturo, che, abbandonata l’urgenza del punk, si abbandona a nuovi standard di raffinata eleganza. "Strange Visions Of Ballons On White Stallions" sono i versi del trip psichedelico di Grey raccontato in "Down Chorus", parole che ispireranno anche la grafica della cover del disco.
"I Melt With You" è il singolo che ogni pop-band desidererebbe comporre: atmosfere ariose, strofa impeccabile e ritornello memorabile, canzone geniale, pur nella sua semplicità. "Carry Me Down" costituisce un altro vertice del disco: siamo nell’area della neo-psichedelia, le chitarre acustiche e il flauto pennellano una ballata che ammalia la sensibilità delle orecchie più attente sin dal primo ascolto. La title track e "Tablas Turning" sono altre gemme a completamento di un album che rasenta la perfezione, magicamente in equilibrio tra sonorità gotiche, ballate psichedeliche e venature synth-pop.
L’inaspettato successo raggiunto dal disco, induce i nostri trasferirsi negli Stati Uniti, paese che ormai li ha accolti come i nuovi beniamini della terra d’Albione. La band si produce in un tour che non dà tregua: ottantadue concerti in cento giorni! Le date sono sold-out, e a presenziare ai concerti troviamo icone del calibro di Mick Jagger e Bob Dylan.Il grande botto di After The Snow ha colto tutti impreparati, e due anni dopo, nel 1984, viene stampato Ricochet Days (4AD) che ci riconsegna una band che ha virato completamente verso territori synth-pop, pur mostrando una perizia tecnica eccellente, nonché una notevole cura per gli arrangiamenti.
Sulla scorta del successo del precedente album, viene richiamato Hugh Jones in veste di produttore, ma sia i riscontri della critica sia lo scarso successo di vendite testimoniano che l’equilibrio raggiunto con After The Snow, purtroppo, non è stato mantenuto.
L’apertura, tuttavia, è discreta: "Rainbow’s End" ricorda i Simple Minds più melodici e accattivanti, persino la voce di Grey ammicca ai toni epici di Kerr. "Machines" è un pezzo in perfetto synth-pop style, ottimamente calibrato tra ritmica sintetica dance e basi programmate, mediato da istanze new wave, grazie a un basso imperioso che ricorda non poco quello del maestro Peter Hook; siamo dunque nei territori cari ai New Order, ma il marchio di quella band dalle trame spigolose e originali era stato svenduto, ne rimaneva solo un pallido ricordo. La stessa voce di Grey è ora dolce e pacata, i toni apocalittici dei primi vagiti sembrano lontanissimi.
Con Ricochet Days si strizza l’occhio ai dancefloor, del resto il tour con A Flock Of Seagulls non poteva non avvicinarli a sonorità melodico-synthetiche. Non più chitarre granitiche, quindi, ma oltre alle basi di synth, addirittura violini, viole, violoncelli e oboe, ad arricchire un tessuto strumentale eccessivamente ampolloso.
La smania di bissare il successo di After The Snow, l'album che li aveva consacrati nel mercato Usa, aveva giocato alla band davvero un brutto scherzo. Il singolo "Blue Waves" ricorda "I Melt With You" con pari eleganza, ma manca di quel forte impatto che il loro singolo-svolta conteneva tra i suoi solchi.
Sia chiaro, ci troviamo di fronte a un disco dignitoso, brani come la title track, "Spinning Me Round" e "Hands Across The Sea" sono pezzi di gran classe, l’eleganza e la bellezza formale raggiunte rasentano la perfezione, ma l’impatto e la magia che possedevano i dischi precedenti, quelle trame così oscure e affascinanti, sono ormai andati perduti.
Le scarse vendite sono una cocente delusione per il gruppo: "Nonostante gli sforzi per un vestito così bello", commentava Robbie Grey riferendosi alla produzione e alla cura maniacale per gli arrangiamenti, ai quali i violini e l’oboe, anziché apportare valore aggiunto, avevano conferito solo una nuova veste barocca.
Nel 1985 Grey viene coinvolto, in qualità di cantante, nell’album "It‘ll End In Tears" del progetto This Mortal Coil, insieme ai compagni di scuderia 4AD. Il pezzo al quale presta la voce è "Not Me" e vede Robin Guthrie e Simon Raymonde dei Cocteau Twins e Manuela Rickers delle X Mal Deutschland in veste di strumentisti; il cantante, complice la collaborazione con nuovi musicisti, sembra recuperare la grinta e l’ispirazione dei bei tempi, e il brano è bellissimo.
La storia dei Modern English, quelli veri, termina qui, persino il loro best, Life In The Gladhouse, si limita alla sola rilettura di questi primi tre album. Ciò che ora andremo a descrivere, quindi, rimarrà solo una sterile appendice alla storia di una band che, almeno in termini di creatività, non ha più nulla da aggiungere.
Il tour dell’84 per la promozione di Ricochet Days negli Stati Uniti registra date in piccoli club per una sporadica schiera di appassionati, rimasti fedeli al loro culto. Ne consegue la rottura con la 4AD e la firma per la Sire Records, etichetta americana che eserciterà non poche pressioni sulla band, affinché si torni alla produzione di singoli dal forte potenziale commerciale.
Dopo queste nuove premesse, la crisi è dietro l’angolo, vige il vuoto creativo, così Walker e Brown lasciano alla fine del tour.
Grey, rimasto l’unico titolare del progetto, si accompagna a nuovi musicisti e nel 1986 fa uscire per la Sire l’album Stop Start.
"Ink And Paper" e "Border" sono buoni pezzi riconducibili al suono Modern English, il resto del disco è composto da brani melensi e anonimi, da destinare al più presto al dimenticatoio.
Dopo una pausa riflessiva durata quattro anni e un ulteriore cambio di formazione, Grey torna alla carica con un altro album, intitolato Pillow Lips. Il disco registra peraltro il ritorno di Conroy nonché l’ingresso di Aaron Davidson, ex March Violet, alle chitarre e alle tastiere.
Nonostante il suono piuttosto anonimo - un synth-pop in linea con il disco precedente - le vendite del disco sono ottime, grazie anche al remix di "I Melt With You, si attesteranno attorno alle trecentomila copie.
Nel 1996 esce Everything Is Mad, nuova formazione, nuova label la Imago, ma la qualità dei brani resta carente, stesso suono di maniera delle ultime anonime prove, con qualche brano, come "Heaven", appena discreto.
Il pensiero della conquista del mercato americano è il sogno ricorrente di ogni band britannica, ma a volte, come nel caso dei Modern English, può rappresentarne l’inaspettato suicidio artistico.