Singer-songwriter dal talento superiore al carisma personale, l’inglese Ed Harcourt si muove nell’ombra della scena indie da più dieci anni, da quando cioè il suo primo album “Here Be Monsters” gli aprì una piccola ma ormai ben radicata fama internazionale.
Giunto ormai al sesto disco, il trentacinquenne Harcourt ha centellinato le sue produzioni negli ultimi anni, evidenziando – ad esempio in “Lustre”, datato 2010 – un perfezionismo formale non sempre coadiuvato da una scrittura che pure si è sempre mantenuta su buoni livelli.
E’ probabilmente con questa consapevolezza che, lasciando a sè stesse alcune nuove registrazioni destinate ad un’iper-produzione, Ed ha deciso di concentrarsi sulla pelle delle sue canzoni, anziché sul loro vestito sonoro.
E così, chiuso fra le mitiche pareti dello Studio Due di Abbey Road in quasi totale solitudine, ha suonato, cantato e inciso all’impronta nove pezzi inediti. Gli stessi che troviamo oggi in questo “Back Into The Woods”, album forse formalmente atipico, ma intriso fino al midollo dello stile timidamente accorato del musicista inglese.
Il romanticismo di Harcourt, elegante ed emotivo al tempo stesso, tra Roy Orbison, Tindersticks e Jeff Buckley (la Fender Jazzmaster che lo accompagna in una ballata di notturna nudità come “Murmur In My Heart” non può che ricordare il musicista di “Grace”), si esprime in una compatta serie di emozionanti piano driven ballad, nelle quali sono soprattutto i piccoli particolari a fare la differenza: la rallentata morbidezza dell’iniziale “The Cusp & The Wane” (che potrebbe essere tranquillamente concessa in prestito a un Chris Martin), il delicato dinamismo e gli archi di zucchero di “Hey Little Bruiser”, i cori alla Fleet Foxes di “Wandering Eyes”, la dialettica fra pianoforte e organo hammond e i cromosomi beatlesiani di “Brothers & Sisters”, la gentilezza amabilmente retrò della piccola ballata “The Pretty Girls”, la malinconica sentimentale classicità di “Back Into The Woods” e “The Man That Time Forgot” (un po’ di Tom Waits, un po’ di Nick Cave, ma sotto le tiepide coperte di una quieta sobrietà), la calda rotondità di “Last Will And testament”.
La produzione di Pete Hutchings, da parte sua, è talmente rispettosa dell’immediatezza esecutiva di Harcourt, da limitarsi saggiamente alla sola ripulitura del suono: l’effetto ricercato è, evidentemente, quello di portare idealmente l’ascoltatore dentro lo studio con il musicista, offrendo l’impressione pura e semplice di assistere a un live intimo ed esclusivo.
12/03/2013