La strada corre veloce, inghiottita dalle ombre della notte. Il cuore in gola, gli occhi ingombri di sogni. Lui le comprerà un anello di fidanzamento, lei si stringerà a lui davanti all’orizzonte dell’oceano. Ma il lampeggiare delle luci della polizia nello specchietto retrovisore si riflette all’improvviso sui loro volti. E in un istante spezza ogni illusione.
Il secondo atto di “The Ballad Of Boogie Christ” comincia con una sconfitta: una rapina finita male, il miraggio infranto di una vita diversa. Un racconto dai toni cinematografici, tratteggiato sul folk-rock teso e diretto di “Blue Lights In The Rear View”. È così che, dopo un primo capitolo all’insegna della grandeur, Joseph Arthur riprende le fila dell’ambizioso concept del suo “Boogie Christ”: con un taglio più asciutto e stringente, capace di offrire una convincente conferma del ritorno di ispirazione che questa trilogia ancora in progress ha portato nella sua musica.
Tutto il disco è giocato sul filo dei parallelismi con la prima parte dell’opera. Anche stavolta c’è il recupero in chiave acustica di un episodio di “Redemption’s City” (“Travel As Equals”), che acquista nuova efficacia nella rilettura incentrata su pianoforte e chitarra. Anche stavolta ci sono poesie free-form messe in musica, come testimonia il verboso srotolarsi di “Whisper Of Whispers”.
C’è il ricordo dell’infanzia, che in “Akron Skies” si insinua con l’atmosfera obliqua di certe pagine di “Come To Where I’m From”. Soprattutto, c’è quel connubio tra carnale e spirituale che rappresenta la cifra dell’affresco dipinto dal songwriter americano nel suo doppio album e che si riaffaccia negli interrogativi provocatori di “Maybe Yes” al passo di una rovente tirata loureediana.
Anche la traduzione in studio dei brani già rodati a lungo dal vivo, in passato non sempre riuscita, sembra trovare la via giusta sul tappeto di percussioni di “I Am The Witness”. La pedal steel di Sam Cohen riveste di tinte bucoliche la delicatezza di “Holding The Void”, mentre i cori di “Junkies And Limousines” e “We Began To Dance Again” evocano una visione femminile a metà strada tra musa e sirena, che si intreccia alla figura dello sfuggente Boogie Christ intorno a cui ruotano tutti i brani.
“È la storia di un folle che crede di essere un genio, o forse di un genio che crede di essere un folle”, afferma Arthur. Tra perdizione e salvezza, il riavvolgersi dei ricordi si trasfigura in parabola universale, alla ricerca di un punto di verità dietro alla disillusione, all’amore, al tradimento, alla speranza. “In my hopes and dreams forgiveness will be the only memory”, canta Arthur sul battito sintetico di “House Of Your Love”, costruendo una delle sue migliori ballate degli ultimi anni.
Ci sono due vie per affrontare la vita, sosteneva Terrence Malick in “The Tree Of Life”: la via della natura e la via della grazia. Una ossessionata dal possesso, fatalmente ripiegata su sé stessa. L’altra aperta alla realtà, libera dall’autocompiacimento. Il Boogie Christ di Joseph Arthur non ha dubbi su quale scegliere: “In The City There Is Grace”, proclama deciso l’epilogo dell’album.
Accompagnato dalle voci di Jenni Muldaur (figlia d’arte del più celebre Geoff) e della cantante soul C.C. White, Arthur dà vita a una sorta di trionfale inno folk-gospel, che tra fiati e svisate elettriche piacerebbe senz'altro al suo vecchio amico Ben Harper. “Give away your hunger, give away your pain/ Keep with you the wonder that saves you here again”: quando la grazia calca le strade della città, lo stupore è l'unica via per riconoscerla.
08/11/2013