Boogie Christ, chi era costui? Forse un profeta, forse un tentatore. Un mistico e un rocker, un santo e un peccatore. O forse solo il riflesso di Joseph Arthur allo specchio.
Di certo l’ambizione non è mai mancata al songwriter americano. Ma, per il capitolo numero dieci della sua torrenziale carriera, ha deciso di puntare ancora più in alto: un doppio album più ricco che mai, attraverso cui ripercorrere le tappe della sua traiettoria esistenziale. A partire dal primo atto di “The Ballad Of Boogie Christ”, metà di un’opera il cui seguito è atteso già per l’autunno e che negli intenti dovrebbe introdurre una vera e propria trilogia.
Non un disco qualsiasi, insomma, ma un lavoro costruito e cesellato negli anni, con una ponderazione inusitata per un artista prolifico e istintivo come Arthur. “È l’album che aspettavo da anni di far uscire”, afferma deciso. “Una grande produzione con tanto di fiati e ottoni”. Tanto che “The Ballad Of Boogie Christ” segna anche il ritorno di Arthur tra le fila della Real World di Peter Gabriel dopo ormai un decennio.
Spiazzare sin dalle prime note è l’obiettivo dichiarato dell’iniziale “Currency Of Love”, che presenta Arthur nell’inedito contesto di un pop orchestrale alla Roy Orbison, marchiato da una performance vocale incisiva come non mai. “I have no real currency, but the currency of love/ I have no one to trust, but the Lord up above”, canta indossando i panni del crooner.
E sono proprio le parole a conquistare il centro della scena in “The Ballad Of Boogie Christ”, traendo spunto dalla vena più prettamente poetica di Arthur: “Tutto è nato da parole e poesie”, spiega, “come semi che sono sbocciati in canzoni”. Lo stesso procedimento di scrittura già adottato nel precedente “Redemption City”, con un flusso di coscienza contenuto a fatica nei confini dei brani. Dal punto di vista musicale, però, il parallelismo tra i due dischi non va oltre i beat sin troppo marcati di “Saint Of Impossible Causes”: a segnare il discrimine è la rilettura di “I Miss The Zoo”, che con la sua impalcatura acustica e il suo solenne bordone d’organo conquista un nuovo spessore rispetto alla versione inclusa in “Redemption City”, inanellando alla maniera loureediana i rimpianti di una vita spesa sul lato selvaggio.
La lunga gestazione di “The Ballad Of Boogie Christ” regala ai fan alcuni brani già ampiamente rodati dal vivo negli anni, a partire da una coppia di solide ballate nel tipico stile di Arthur come “Still Life Honey Rose” e “Famous Friends Along The Coast”. Allo stesso modo, la lunga lista di ospiti del disco (da Garth Hudson a Jim Keltner, da Juliette Lewis a Joan Wasser) è frutto di una serie di sessioni di registrazione che riassumono in pratica tutta la carriera recente del songwriter americano.
Non è difficile, allora, sorprendere qualche traccia del passato tra le pieghe del nuovo album: il ribollire stonesiano di “Black Flowers” fa pensare all’esperienza di Arthur al fianco dei Lonely Astronauts, mentre la classica andatura pop di “It’s OK To Be Young/Gone”, con il suo infiammarsi di chitarre nel chorus, rimanda ai momenti più estroversi di “Our Shadows Will Remain”. In “King Of Cleveland”, poi, Arthur si spinge a rievocare i luoghi della sua giovinezza in Ohio, dando voce a un miraggio di successo che si dipana tra tastiere e scenografie sintetiche.
Ma la personalità di “The Ballad Of Boogie Christ” sta nel desiderio di accrescere suoni e aspirazioni, all’inseguimento di un canone soul-rock che non si sottrae agli eccessi, da qualche parte tra il trasformismo di David Bowie e il Dylan febbricitante di “Street Legal”. Una formula suggellata dal crescendo finale di “All The Old Heroes”, inno straripante e affabulatorio che celebra l’addio agli idoli dell’adolescenza in un tripudio di archi e cori.
Brano dopo brano, la figura di Boogie Christ comincia ad assumere lineamenti sempre più definiti: “Christ would eat pizza and cut blackjack decks”, proclama Arthur nella canzone che dà il titolo all’album. Non è una semplice provocazione, la sua: perché mai un Dio che accetta di mescolarsi con la carne dell’uomo non dovrebbe c’entrare anche con la pizza o con le carte da gioco? “Christ would be savage, but Christ would be true/ He’d say if you want him then look inside you”. La verità è qualcosa che sta dentro le cose, non sopra: al cuore della realtà.
La ballata di Boogie Christ, allora, non è altro che il percorso di questa ricerca: “È la storia di qualcuno che potrebbe essere illuminato o folle o un misto di entrambe le cose”, riflette Arthur.
La vita è un continuo alternarsi di rivelazioni e silenzi, di luce e oscurità, sembra suggerire tra le pieghe di “I Used To Know How To Walk On Water”: sempre sospesa tra la vertigine della consapevolezza e il tarlo del dubbio. “I could give riches to the beggars/ And give love to the one who hates”, canta tra le note sparse del piano e il baluginare di una tromba, fedele discepolo del vangelo apocrifo di Nick Cave. “But now I watch with awe and wonder/ Doubt has now befallen me”.
Non resta che una voce solitaria, come il dissolversi di un gospel denudato. È la voce di Ben Harper, amico di sempre e compagno di viaggio nei Fistful Of Mercy. A lui è affidato il compito di raccogliere le parole che palpitano dietro la maschera di Boogie Christ: “I am here/ And I am humble/ For I know not which way to go”. Le parole di chi ha lasciato tutto dietro di sé, tranne l’umiltà della domanda.
22/06/2013